(Il testo completo su La Voce di New York)
(Angelo Perrone) Ha destato polemiche l’intenzione del governo Meloni di sostituire i massimi dirigenti delle amministrazioni pubbliche con nominativi di fiducia.
Il sospetto è che si voglia avere un personale direttivo che condivida gli orientamenti della compagine governativa e assecondi il nuovo corso senza ostacoli.
Una finalità strumentale rispetto all’interesse partitico, a dispetto dell’imparzialità e indipendenza dell’azione amministrativa. Quando non soggetta a scopi clientelari: sistemare gli affiliati. Risarcire i trombati, consolare gli esclusi dai primi incarichi.
Può allarmare il cambiamento radicale se arriveranno personalità di modesto spessore, qualificate soltanto dall’appartenenza. Ma non si tratta di una novità, né di un abuso, piuttosto di una prassi diffusa nelle democrazie occidentali.
Nella legislazione italiana trova riconoscimento dal 2002-2006, quando fu sancita la cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza, trascorsi 90 giorni dalla fiducia al nuovo governo. Prima si era manifestata la stessa tendenza, con la scelta del sistema maggioritario a livello nazionale (la legge Mattarella) e locale.
L’istituto sarebbe servito ad armonizzare amministrazione e politica, per il buon andamento dell’azione pubblica. Alla prassi, non sono rimasti estranei, qualunque fosse il colore i governi precedenti, che vi hanno fatto ampio ricorso.
Può essere giustificato che il nuovo esecutivo scelga le persone adatte per realizzare il programma politico vincente. Semmai si tratta di valutare la dimensione del fenomeno, il livello dei cambiamenti, la qualità del personale chiamato ai nuovi incarichi. Insomma gli esiti pratici di una rivoluzione importante.
Fuori dall’Italia, la prassi – spoils system - ha visto applicazione negli Usa a partire da inizio ‘800. Al vincitore, spetta «il bottino del nemico», cioè il potere esercitato nell’amministrazione, appannaggio delle precedenti compagini. Il nuovo Presidente nei primi 60 giorni provvede alla nomina di 200-300 posti chiave della sua amministrazione, in base all’omogeneità di vedute.
Tutto normale allora, persino utile per l’azione amministrativa? Si può escludere il clientelismo? Conviene rinunciare al merit system, basato sulla valutazione oggettiva della capacità, attraverso concorsi pubblici? Infine non c’è qualcosa di stonato nel qualificare come «bottino» il potere pubblico, quando dovrebbe essere considerato un servizio al cittadino, e dunque allo Stato?
Come spesso accade, lo status del paese che adotta una regola alla fine fa la differenza. In Italia, il sistema elettorale non assicura affatto la stabilità dei governi per la durata della legislatura. Inoltre la loro vita è breve, inferiore ai cinque anni, spesso con composizioni eterogenee. La classe dirigente non ha tempo di studiare i dossier, impostare una linea e metterla in pratica, che deve fare le valigie. Vive nella precarietà.
Per altro verso, in Italia pesa un difetto strutturale e culturale. Mancano le scuole di eccellenza per la formazione degli amministratori pubblici, e di riflesso la cultura dell’imparzialità e del merito, che troverebbe il referente costituzionale nell’articolo 54 (i cittadini ai quali sono affidati funzioni pubbliche devono esercitarle «con disciplina ed onore»), e nell’art. 97 (l’accesso agli incarichi pubblici avviene di regola mediante concorso pubblico, e così si accertano capacità e competenze).
La delicatezza nell’esercizio di questo potere traspare dalle pronunce della Corte Costituzionale. Il ricambio dirigenziale è fatto salvo da una sentenza del 2006, per il buon andamento amministrativo. Quanto poi all’imparzialità, la Corte ha ribadito la necessità di non pregiudicare l’indipendenza dell’azione pubblica.
La combinazione delle due esigenze esige di limitare l’intervento della politica ai vertici apicali lasciando inalterata la struttura interna. In modo che ai governi spetti dettare le linee guida e al corpo amministrativo realizzarle, senza interferenze.
A prescindere dagli interessi di parte e dalla bramosia (comprensibile ma pericolosa) di chi è stato lontano dal potere nei settantacinque anni della Repubblica, non è l’acquisizione del «bottino del nemico» il modo migliore per far funzionare la macchina amministrativa.
Rimane sempre la centralità dei valori dell’esperienza e della competenza. Quali che siano le finalità di ciascuna compagine governativa, il Paese ha bisogno di una classe dirigente idonea, e neutrale rispetto ai fini di parte.
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