di Marina Zinzani
(Introduzione di Angelo Perrone)
(Tratto da “Racconti della metro”)
(Angelo Perrone) La metro non è l’unico luogo-simbolo delle città moderne. Certo particolare. In uno spazio piccolo e super affollatosi ritrova un’umanità eterogenea. Persone sconosciute con destinazioni diverse. Difficile scambiarsi sguardi, rivolgersi parole. Ogni persona, un mondo a sé. Pensieri, desideri, preoccupazioni.
C’è poi una maschera espressiva che nasconde l’intimità. Il viso è chino sullo smartphone, sedotto dalla magia dello schermo. Un ripiegamento fisico, oltre che mentale. Non siamo più abituati a guardarci intorno, non accade di incrociare gli sguardi. Ciascuno conserva la sua diversità, persino il mistero.
Marina Zinzani prova ad immaginare pensieri e sentimenti di qualcuno dei viaggiatori. Dietro ogni volto, può esserci una storia da conoscere, tutta da scoprire. E in cui ritrovare qualcosa di noi. Dopo le storie di Agnese, Sergio, Lucia, Enrico, Roberta, ecco quella di Vincenzo
Non sopporto più le persone nella metro, tutto il caos che c’è ogni mattina. Tutti attaccati, le facce tristi. Devono andare a lavorare, devono correre, sempre l’orologio da guardare, non possono arrivare tardi in ufficio. Tanti sembrano avere la divisa, vestiti blu, giacca e cravatta, lavoreranno nelle banche, in posti importanti. Magri, con i loro zaini sulle spalle, un pranzo veloce e via, sempre di corsa.
Ieri sera ho visto un documentario alla tv, gente che vive in un posto sperduto in Nepal, dove il ritmo è lento, dove le persone assaporano ancora l’arrivo della primavera, la gioiosità di una natura che rinasce, e la quiete dell’autunno che prepara l’inverno. Un documentario che parla di gente che ha così poco ma riesce sempre a sorridere.
Trovalo tu un sorriso qui nella metro, sono tutti con lo smartphone in mano, non guardano nessun altro attorno, si intontiscono con le cose che vedono, che non lasciano niente. Forse noi del mondo occidentale non abbiamo capito nulla, sempre presi dalle cose, le cose, le cose, abbiamo perduto la parte migliore di noi.
Non dovevo fare il medico. Questo è il punto. Quando si è giovani si hanno le idee poco chiare, e si segue una strada già tracciata. Nonno medico, padre medico, figlio medico. Cos’altro potevo fare? Se avessi pensato con la mia testa, se avessi avuto idee chiare, mie, anche obiettive verso la mia famiglia, le cose sarebbero andate diversamente.
Il punto è che mi sentivo integrato, una famiglia benestante in cui nessuno alzava la voce, in cui non si criticava i genitori e le loro ambizioni. Perché forse questo è il punto: mio padre ci teneva che io mi laureassi in medicina e facessi una bella carriera come aveva fatto lui, e anche mia madre ci teneva, era la cosa più scontata. Un bel quieto vivere e tutto era a posto.
Tanti anni dopo guardo un documentario sul Nepal e penso che dovevo seguire l’esempio del mio amico Carlo, anche lui proveniva da una famiglia borghese, suo padre era un alto dirigente, ma non ha seguito la strada che gli indicavano, ha scelto la sua strada, e in fondo è sereno, certo meno stressato di me. Soprattutto non ha contatti con la morte così frequenti come ho io.
Stamattina devo ricevere i genitori di un ragazzo. Alle quattro di notte ero già sveglio, non ho più ripreso sonno. È uno di quei momenti in cui odio il lavoro che mi sono scelto, il medico. Non ce la faccio. Oggi non ce la faccio e dovrò tirar fuori tutto quello che c’è di professionale in me, raffreddarmi, non lasciare trapelare nulla delle mie emozioni, dovrò, gentilmente, dire che gli esami purtroppo.
Purtroppo, e questa parola cambierà già subito i volti di quei genitori, purtroppo gli esami non vanno bene, e quello che speravamo di non trovare c’è, e bisogna operare subito il ragazzo, forse esiste un margine di speranza, ci sono delle cure innovative. Devo raccontare queste frottole, le cure in America hanno funzionato in minima parte. Vedrò la madre crollare, mi chiederà cosa voglio dire precisamente, il padre cercherà di contenersi ma mi farà domande e domande.
Devo nascondere la mia impotenza, dire che mi dispiace, che però non dobbiamo mai abbandonare la speranza, che il ragazzo ha bisogno di due genitori forti, altrimenti la sua situazione psicologica peggiorerebbe molto, se loro crollano.
So cosa succede in questi momenti, i genitori si presentano al ragazzo con gli occhi rossi e un sorriso forzato, nella speranza che lui non veda quegli occhi che prima hanno pianto. Il medico. L’oncologo. Un uomo stanco.
Uno dei miei rammarichi è di avere intrapreso medicina, di avere seguito la strada di mio padre. Dovevo fermarmi a ragioneria. Mi sarei rinchiuso fra le mura di una banca, sarei uscito alle cinque senza portarmi questo genere di problemi a casa, mi sarei immerso nei numeri, nelle carte, senza alcun sentimento.
Sarei stato meglio. Non sarei finito in questo modo, con una voglia continua di mandare tutto all’aria, con la sensazione di non farcela più, con il contare gli anni che mi mancano alla pensione. Li vedo in corsia come sono tutti stressati. Orari massacranti, responsabilità, stanchezza. Medici e infermieri.
Ho conosciuto una signora, anni fa. Me la ricordo ancora, mi ricordo le sue parole come fosse oggi. Sembrava avere, in quel momento, la capacità di comprendermi più di ogni altro, più di mia moglie, più di mia figlia, era come se le sue parole fossero uscite dopo un viaggio in quel me stesso più profondo, dentro l’anima. Mi aveva detto “Nel lavoro che fa c’è qualcosa di sacro, anche se deve celare il dolore che prova”. Io non capii, rimasi sorpreso.
Lei sembrò accorgersi di questo, e continuò “Quel sorriso che ha dato a mio figlio è servito, non lo dimentico, e quel sorriso lei l’ha avuto perché provava empatia. Un buon medico è quello che ha empatia.” Quella donna, Ilaria si chiamava, aveva il figlio che era stato operato, una situazione che sembrava seria, per fortuna lui si è salvato. Quelle parole, su chi è un buon medico e sull’empatia, mi sono state utili negli anni.
Devono essermi utili anche ora. Devo nutrirmi di qualcosa, di una forza immaginaria ma che deve risultare reale, efficace alla fine. È davvero così disperata la situazione di quel ragazzo? Devo fare ricerche, forse quel male è stato curato con successo da qualche parte. Devo metterci tutto il mio impegno. Aiutare questi genitori nel percorso più difficile della loro vita. Con umanità. Con empatia, come disse quella donna. Cascina Gobba. È ora.
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