Racconto
di
Vespina Fortuna
A Torino,
d’estate, quando fa caldo, fa caldo davvero. L’umidità s’infila nel collo,
sotto le maniche della camicia, sotto il cappello, nel naso, in bocca, ti bagna
la fronte e dà arsura alla gola. Era un giorno così, quando camminavo per le
vie umide e scivolose, cercando un inutile refrigerio nei portici che le
costeggiano. Erano le nove di sera, il pallido sole se n’era già andato,
sconfitto dagli impenetrabili strati di afa. Le gialle luci dei lampioni avevano
intorno un alone dorato e si riflettevano sulla strada.
Come
il solito, ero in anticipo. Dovevo consegnare il mio ultimo manoscritto ad una piccola casa editrice che
un amico mi aveva indicato, mi aspettavano per le dieci, a fine giornata e quando
si sarebbe potuto parlare in tranquillità. Ero quasi certo che quell’incontro
non sarebbe andato a buon fine, ma tentar
non nuoce, mi ero detto. Mancava più di mezz’ora all’appuntamento e non mi
andava di stare fermo in piedi, sotto il portone. Vidi un caffè, poco distante.
I
caffè, a Torino, sono belli e sontuosi, con le porte in legno scuro, gli enormi
lampadari di cristallo, i baristi ed i camerieri in divisa e le poltrone
imbottite. La prima volta che vi entrai, ricordo che mi sentii a disagio,
preoccupato di quanto mi sarebbe costata quella concessione di gioia
momentanea, ma alla fine, rimasi felicemente sorpreso. Tutto quello sfarzo era
gratis: comodità, sorrisi, gentilezza e professionalità erano compresi nel
prezzo, si pagava esclusivamente il costo
della consumazione. Uno dei motivi per cui adoro Torino, è per i caffè!
Comunque,
quel giorno entrai e mi sedetti al tavolo.
Accaldato com’ero, decisi per un tè freddo. Estrassi dalla busta il
manoscritto e cominciai a rileggerlo per l’ennesima volta e, per l’ennesima
volta, avrei voluto apportare delle correzioni. Il cameriere si avvicinò col
vassoio e, credendo che fosse la mia ordinazione, lo seguii con lo sguardo, ma
lui proseguì verso il tavolo più a destra e servì il signore che sedeva vicino
alla vetrata.
Stavo
quasi per voltarmi, quando lo riconobbi. Era proprio lui, con gli occhiali
tondi, la giacca, la camicia bianca, la cravatta sottile e quello sguardo
malinconico che gli avevo visto in foto e che lo rendeva tanto affascinante.
Rimasi come un cretino a fissarlo, lui ricambiò il mio sguardo e sorrise,
consapevole di essere stato riconosciuto. Gli sorrisi anch’io, rosso in viso
per l’emozione e lui, inaspettatamente, m’invitò a sedergli accanto.
Mi
voltai per vedere se indicasse proprio me o magari qualcun altro alle mie
spalle, non c’era nessuno e allora, con le mani tremanti e i movimenti goffi,
presi tutte le mie cose e mi spostai al suo tavolo. “Salve” mi disse con la sua
voce profonda. “Salve” risposi io, col nodo in gola che mi strozzava l’ugola.
“Piacere, Cesare Pavese”. “Lo so” risposi io, ritenendo che fosse inutile
pronunciare il mio nome, ma lui sorrise e continuò a guardarmi, invitandomi a dirgli
chi fossi. “Sono Matteo Marini”.
“Cos’è
quello? Un suo manoscritto? E’ anche lei uno scrittore?” “Sì è il mio ultimo
manoscritto, ma non mi posso ancora definire uno scrittore, ho pubblicato
appena due romanzi che sono rimasti perlopiù sconosciuti”. Prese in mano
l’incartamento e sussurrò “Chi scrive bene è uno scrittore, per definizione, a
prescindere dalle proprie pubblicazioni, come chi dipinge bene è un pittore e
chi sa fare le scarpe è un calzolaio”.
Pronunciò
quelle parole con tono leggermente seccato e mi sentii sciocco. Poi mi
concentrai sul fatto che gli occhi del grande Cesare Pavese stessero leggendo
ciò che io avevo scritto ed ebbi la sensazione di galleggiare in aria. Lesse le
prime tre pagine, una di fila all’altra, senza fermarsi mai, nemmeno per bere
il suo caffè e alla fine, alzò lo sguardo e si complimentò per la fluidità della
mia scrittura. “Bravo! Mi racconti il seguito” provai a dirglielo a voce, ma
non sono molto abile con le parole, m’incespicai più volte, andai avanti nel
racconto e tornai indietro, soffermandomi su dei punti che poco servivano a chi
voleva conoscere la storia per grandi linee.
Ma
lui era un grande, comprese la mia emozione e persino la trama del libro,
nonostante la descrizione impacciata. Alla fine si alzò, mi salutò e mi disse
che aveva un impegno. Aveva un appuntamento importante preso molti giorni prima
e a cui non poteva arrivare in ritardo. Si congedò stringendomi la mano e
invitandomi a proseguire nella strada della scrittura perché ne avevo la
stoffa. Si avvicinò alla cassa, pagò anche il mio conto ed uscì.
Intanto
si erano fatte le 10, raccolsi le carte ancora in stato di trance. Salii le
scale fino al piano della casa editrice senza neanche accorgermi di averlo
fatto. Suonai e mi sedetti dall’altro
lato della scrivania, quello degli ospiti. Sentii solo, le parole dell’uomo che
avevo di fronte, senza ascoltarle davvero, continuando a ripensare all’incontro
con il mio autore preferito. Quello per me era valso più di cento pubblicazioni
e di mille copie vendute. Quando fu l’ora di andare, mi alzai ed uscii.
Era il 27 agosto del 1950, era quasi mezzanotte, Cesare Pavese era già in una stanza dell’albergo Roma di via Carlo Felice e, forse, a quell’ora, non era già più con noi.
Era il 27 agosto del 1950, era quasi mezzanotte, Cesare Pavese era già in una stanza dell’albergo Roma di via Carlo Felice e, forse, a quell’ora, non era già più con noi.
Nessun commento:
Posta un commento