venerdì 11 agosto 2017

In volo tra le rondini


Racconto
di Paolo Brondi

Le rondini sembravano impazzite. Nel cielo rossastro di un sereno tramonto intrecciavano voli sempre più rapidi e frequenti fra svettanti cipressi, e sopra vigneti degradanti del podere Groppali. 
Era l’ultimo scorcio di un’estate lunga e calda e Fulvia, l’unica figlia dell’agronomo Groppali, ammirava quel turbinio di colori, tra il quieto rossastro dei tralci di vite, il verde scuro dei cipressi e i guizzi veloci bianconeri delle rondini.
Alle immagini intrecciava pensieri di com’è la vita nei suoi snodi apparentemente saldi e sicuri, in realtà sfumati e contrastanti e, come avveniva sempre più spesso, sentiva crescere l’ansia leggendo in quei voli il presagio d’incombenti pericoli. Un’adolescenza, quella di Fulvia ormai prossima ai diciotto anni, attraversata da solitudine malinconica e depressiva. Eppure, promettente era stata l’alba della sua vita, protratta fino ai sei, sette anni, in una complessa e sostanziale educazione familiare, a causa di affettività fra sé discordanti.


Silvia, la madre, rimase incinta ad appena ventitré anni. La mise al mondo e riprese subito gli studi di Giurisprudenza laureandosi con ottimi voti quando ancora doveva compiere i venticinque anni. Poi tutto un turbinio d’incarichi e di responsabilità.
E in tutto questo dipanarsi di anni Fulvia cresceva all’ombra dei successi della madre, e alla piena luce della protezione del padre e dell’avvicendarsi di balie.
Silvia amava la figlia, assai più di quello che dimostrava con le sue residuali presenze in ognuno dei giorni di passaggio di Fulvia dall’infanzia alla prima fanciullezza. Ma, con quella sua insistenza su incitamenti del tipo «Sei brava Fulvia, sei proprio brava! Deve essere sempre così: tu devi essere sempre la più brava. Sei bella, come sei bella, sei più bella di tutte le tue compagne di scuola», non faceva altro che rafforzare in tutti le solite critiche, tanto più diffuse perché germinanti in quel piccolo borgo di Toscana di cui il podere Groppali era il fiore, e anche il sostentamento del maggior numero delle famiglie locali.


Sandro, il padre, quando sposò Silvia aveva trentacinque anni e una posizione già consolidata. Era laureato in agraria e aveva ricevuto in donazione da suo padre la metà della proprietà di famiglia; un podere di un centinaio di ettari, con casa, vigneti e piante centenarie di olivo, disposto verso oriente, negli ondulati e degradanti colli tra Siena e S. Quirico d’Orcia.
In pochi anni, rese la terra un promettente e ricco serbatoio di bontà naturalistiche: vino, olio, e tutti i derivati, e ogni tipo di frutta e di sicura redditività per continua e crescente capitalizzazione.
In questo suo costante contatto con i misteri e le possibilità della sua terra, con un’ammirevole e profonda dedizione, lasciava scorrere giorni, mesi, anni, senza rendersi conto che la sua Silvia scivolava via, sempre più lontana da quei luoghi, verso un altro destino, fatto certo di studi, lezioni, successi, ma anche da altre passioni, altri uomini.
Solo con Fulvia riprendeva il filo della totalità dei sentimenti e dell’amore: fin dai suoi primi anni, le faceva vivere una quotidianità sospesa tra l’oro dell’alba e il rosso infuocato dei tramonti, guidandola dolcemente, mano per mano, in passeggiate nei più lontani sentieri del podere. E le faceva conoscere un mondo radicalmente separato da quello delle definizioni, della conoscenza rigorosa e astratta: il mondo della poesia, del ripiegamento sulla propria interiorità, in ascolto delle voci inespresse dell’emozionabilità.
Un mondo suggestivo, meno faticoso di quello delle tante “parole”, ma per ciò stesso fonte d’intense compartecipazioni con il fruscio delle foglie, variamente vocianti sulla spinta del vento, con i canti dei passerotti, della capinera, dell’usignolo, del pettirosso, dei verdoni, con il gorgoglio delle acque della gora ove le contadine nettavano lenzuoli e tovaglie. E quando raggiunse i cinque anni, prese a narrarle fiabe, a recitarle versi, sostando con lei sul greto del fiume, o su un morbido poggio, motivato anche dallo stupore che le leggeva negli occhi e dall’incanto che quei momenti pure a lui regalavano. 


Erano i versi che anni più tardi, Enia, quando prese a frequentare il Liceo classico di Siena, rivisitò a memoria riconducendoli alla fonte, la lirica greca, da cui il padre li ricavava. Allora, quando il sapere era tutto meraviglia, apparivano nient’altro che canto e felicità:
Ho una bella figlia: ad un fiore d’oro
assomiglia, Fulvia cara, io per la terra tutta
o per un bel giovine lei non darei.
Vedi Fulvia, sulle foglie più in cima
son posati pettirossi variopinti
folaghe rosse dal collo cangiante
alcioni dalle grandi ali
e per te, solo per te, cantano
cantano, cantano…


Nel tempo della scuola, il quotidiano contatto con i suoi compagni costituiva per Fulvia l’occasione per conoscere un orizzonte esistenziale con il predominio di colori cupi, voci di fatalismo, di attribuzione delle cause sempre agli altri, di contrazione del tempo entro i limiti della casualità, del presentimento: l’opposto di quello entro cui aveva nutrito il corpo e la mente.
Nel passaggio dal ginnasio al liceo, mentre intensificava il piacere della riscoperta dei classici, avvertiva con grande pena le distonie del vivere scolastico: sentiva che a scuola non si viveva il tempo dell’immaginazione, della speranza, dell’attesa, ma a lei, come ai suoi compagni, si faceva vivere un tempo esaurito, mortificato. Fulvia superava questa dimensione dell’esistere non appena varcava le porte di Siena per tornare alla sua terra, nel chiaroscuro dei suoi colli, ai fiori, alle voci dei suoi amici animali.
Prima ancora di tuffarsi sui libri e sulle materie che pure amava profondamente, appena tornata a casa, correva sul colle più prossimo per sedersi sotto una grande quercia, respirando a pieni polmoni la bellezza di ogni cosa d’intorno. Ma in uno di quei giorni che le rondini sembravano impazzite, Fulvia si confuse con loro e volò via.

1 commento:

  1. La tristezza di una malinconica adolescenza....il sapore dannunziano , di Pascoli, Leopardi, Sallustio e Pirandello................ reminiscenze colte e raffinate...Fulvia, ragazza dolcissima,..............Sandro, uomo che offre oro di albe e rosso di tramonti.....distonia, realistica, tra scuola e mondo....Immagini stupende, colte nella loro tenerezza triste----elaborata la psicologia dei protagonisti. Bello,............... un racconto da leggere, come poi lo sono tutti. L'animo viene risanato dalla lettura che consente, mentre ti immergi nella valle o sei in volo con le rondini, un attimo di respiro, una boccata di ossigeno dalle brutture del mondo-
    Cristina

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