Racconto
di Angelo Perrone
Ebbe
quasi un sussulto e si alzò di colpo dal letto poi, barcollando nel buio, si
mise a sedere sulla poltrona, vicino alla finestra che dava sul grande viale
sotto casa. Rimase per qualche attimo con gli occhi chiusi.
La porta della stanza,
che aveva lasciato socchiusa in quella notte afosa d’estate, nella speranza che
il passaggio dell’aria potesse dargli refrigerio, prese a cigolare, forse
investita da un colpo di vento che improvvisamente passò attraverso la finestra
spalancata.
Giancarlo non si infastidì per il rumore, ma anzi provò una sensazione di sollievo, l’aria si stava finalmente rinfrescando dopo l’afa di tutta la giornata, diventava ora quasi più leggera, e lui avrebbe potuto forse approfittarne per riprendere il sonno, nelle poche ore che mancavano al mattino. Allungò le gambe davanti a sé, respirò profondamente, e chiuse gli occhi senza pensare.
Nel caldo torrido di quelle giornate, aspettava impaziente il tardo pomeriggio e, al termine della giornata, cercava ristoro nei parchi della città, dove faceva lunghe passeggiate, assaporando, felice come un ragazzino, la brezza che spirava a quell’ora.
Fra tutti, preferiva Villa Sciarra, sopra Trastevere, dove il “ponentino”, all’ora del crepuscolo estivo, che precedeva di poco il momento della cena, si levava in modo lieve, e pieno di maliziosa complicità, e ne avvolgeva il viso con leggerezza, quasi rivolgendogli una tenera incerta carezza.
Nel caldo torrido di quelle giornate, aspettava impaziente il tardo pomeriggio e, al termine della giornata, cercava ristoro nei parchi della città, dove faceva lunghe passeggiate, assaporando, felice come un ragazzino, la brezza che spirava a quell’ora.
Fra tutti, preferiva Villa Sciarra, sopra Trastevere, dove il “ponentino”, all’ora del crepuscolo estivo, che precedeva di poco il momento della cena, si levava in modo lieve, e pieno di maliziosa complicità, e ne avvolgeva il viso con leggerezza, quasi rivolgendogli una tenera incerta carezza.
Ora
che era in pensione e aveva più tempo, raggiungeva a volte di buon mattino un
tratto di spiaggia a pochi chilometri da Roma, dove spesso, anche d’estate, il
vento non dava tregua e, soprattutto nelle prime ore del giorno, scagliava onde
impetuose contro la sabbia sollevandola e portandola a ridosso delle prime case
dei pescatori. Camminava spedito sulla rena bagnata e gli piaceva sentire sul
viso il vento forte che arrivava dal mare.
Persino
d’inverno, peraltro a Roma mai troppo rigido, quando le giornate si faceva più
lunghe, usciva spesso di casa e si tratteneva fuori, camminando a passo svelto
nei viali lungo il Tevere, tra mulinelli di foglie secche.
Provava un insolito
appagamento e non sapeva spiegarsene il motivo. Cercava di ritornare indietro
nel tempo, sino agli anni dell'infanzia, per darsi una ragione di questo
indefinibile sentore, ma i frammenti della memoria erano assai vaghi, e non
riusciva a mettere a fuoco un episodio preciso cui collegare il suo stato d’animo
presente.
Gli
veniva in mente per esempio quando suo padre, la domenica, lo accompagnava
nella piazza vicino casa, nel quartiere Prati, dove veniva montata una grande giostra con i
seggiolini colorati che dondolavano da un’alta piattaforma rotonda piena di
luci splendenti.
Per raggiungere quei giochi, doveva percorrere alcune
centinaia di metri lungo un grande viale circondato da alte querce. Gli era
capitato spesso di indugiare a percorrere quella strada attratto dal manto di
foglie che ricopriva l’asfalto in autunno.
Il
padre lo faceva salire su un seggiolino e, lui, con le piccole mani strette ai
sostegni di ferro, aspettava che la giostra iniziasse il suo giro. Il
seggiolino, sollevandosi da terra, cominciava a ruotare sino a che la velocità
lo faceva muovere perpendicolarmente al terreno. Egli sentiva che il corpo
veniva proiettato lontano, mentre il vento gli tagliava la faccia.
Giancarlo,
molti anni dopo, ricordava bene quanto, da piccolo, aveva desiderato andare a
quelle giostre montate alla fine del lungo viale, ma non poteva dimenticare
nemmeno che in quei brevi momenti, quando il seggiolino volava veloce in alto, la
gioia si intrecciava ad una paura che gli afferrava il piccolo cuore, e perciò
non riusciva a collegare le sensazioni di oggi a quelle di allora.
All'improvviso,
mentre il pensiero silenzioso scorreva lontano, un colpo di freni e uno
schianto, provenienti dalla strada, destarono Giancarlo. Egli, alzatosi dalla
poltrona, si precipitò alla finestra. Un giovane, caduto dal ciclomotore, era
disteso a terra in prossimità del marciapiede, e cercava di fermare con le mani
il sangue che usciva copioso da una ferita alla gamba destra.
Le
ginocchia, certo! Un attimo fu sufficiente per tornare indietro nel tempo. Come
aveva potuto dimenticare il sangue che era uscito quella volta dalle sue
ginocchia? Entrambe sanguinanti e sporche di terriccio, in un giorno di fine estate
di tanti anni prima.
Era
appena adolescente e il padre gli aveva regalato la bicicletta che sognava,
quella da uomo, con le ruote grandi. Era di colore nero, con un sedile grande,
da passeggio. Sarebbe stato difficile, con le gambe da fanciullo, pedalare su
una bicicletta così alta, eppure Giancarlo, appena la vide, non ebbe
esitazioni, si gettò su di essa, e, stando appena a cavalcioni della canna,
fece incredibili scorribande per tutto il quartiere.
Non
desistette neppure quando, in una curva troppo stretta, cadde sui sampietrini e
si sbucciò un ginocchio. Così, dopo aver legato alla meglio il fazzoletto
intorno alla gamba, senza riuscire peraltro a fermare il sangue, continuò a
gironzolare per qualche ora.
Ma dopo poco, instabile sulla grande bicicletta, Giancarlo rotolò nuovamente a terra, sfregandosi in modo più grave l'altro ginocchio. Anche allora non pensò che la bicicletta fosse troppo grande per lui né che avesse commesso qualche errore di guida, sospettò che la ragione dell’accaduto fosse solo quella di aver incrociato qualche punto sconnesso della strada.
Ma dopo poco, instabile sulla grande bicicletta, Giancarlo rotolò nuovamente a terra, sfregandosi in modo più grave l'altro ginocchio. Anche allora non pensò che la bicicletta fosse troppo grande per lui né che avesse commesso qualche errore di guida, sospettò che la ragione dell’accaduto fosse solo quella di aver incrociato qualche punto sconnesso della strada.
Però,
stavolta, con tutte e due le ginocchia ferite, non poté rimettersi a cavalcioni
né in sella, né riprendere le sue corse; allora a piedi impugnò il manubrio, si
appoggiò ad esso e si incamminò mestamente verso la casa che per fortuna era
abbastanza vicina.
Egli
abitava in un casolare, oggi demolito, alla periferia della città, una vecchia
costruzione a due piani, con le tegole rosse, i muri qua e là sberciati, e una
grande aia davanti.
Man mano
che si avvicinava, le ginocchia gli bruciavano sempre più a causa del sangue
che sgorgava dalle ferite sporche di terra e sentiva un forte dolore. Appena fu
nell'aia, abbandonò la bicicletta, e, dopo aver sommariamente pulito le ferite
con l’acqua della fontanella, si stese supino, con le ginocchia ferite rivolte
in alto, su una vecchia tavola posta sopra i gradini dell’edificio.
Sudato,
si lasciò andare, stanco per la fatica e con quel bruciore alle ginocchia che
non gli dava pace, quando sentì, dapprima in viso e poi sulle gambe, la brezza
leggera della sera.
Provò
un sollievo inaspettato, come se la stanchezza fosse svanita e le ginocchia non
ardessero più. Rimase lì, su quella tavola, con il viso rivolto verso il cielo,
per un tempo che non seppe calcolare, rinfrancato da quel soffio di vento che
lo raggiungeva e non gli faceva più sentire il dolore alle ginocchia.
Giancarlo
era sempre affacciato alla finestra, con lo sguardo verso il marciapiede di
fronte, dove il ragazzo era caduto dal motorino. Vide che non era accaduto
nulla di grave, perché il giovane si era rialzato e si stava allontanando.
Rasserenato, si girò, dirigendosi verso il letto. Quando fu al centro della
stanza, si fermò un attimo ad inseguire un pensiero lontano che aveva attraversato
la sua mente, e gustò a pieni polmoni l'aria fresca della notte che gli
arrivava dalla finestra.
Poi,
si sdraiò lentamente, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, si girò di spalle,
appoggiò la testa da un lato, e si lasciò andare. Proprio allora, oltre la
finestra, cominciavano a diradarsi le ombre della notte e un leggero bagliore
filtrava tra i grandi rami degli alberi davanti casa.
Nessun commento:
Posta un commento