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Ritorno a casa


Racconto
di Paolo Brondi

Giulia, quando sentì l’impulso di telefonare al suo ex, Giorgio, stava leggendo un’opera di Goethe, ”I dolori del giovane Werther”, ritrovandovi immagini e sentimenti propri: un’anima sensibile, aperta alla bellezza, all’amore, ma anche sofferente perché cosciente di sé.
E pensava a quell’intimo tepore che nel convivere con Giorgio, si era intensificato giorno dopo giorno fino a far paura di poterlo reggere e gestire ed a credere che la fuga dal suo amore potesse sciogliere la sua sottile angoscia.
Da allora si era rifugiata in un bilocale, ereditato dalla nonna materna, con ampie e solari finestre aperte sul mare di Lerici. Si affacciava spesso a contemplare il tramonto e il mare che le appariva prendersi gioco del sole, lo attirava suadente, lo illudeva di dare ancora calore a quella parte di mondo che invece già fredda assisteva impotente al piccolo dramma quotidiano.
Dietro l’invisibile traccia che lasciava il movimento del tramonto, i voli dei gabbiani, il gioco dei pesci azzurri, le sembrava che il tempo rifluisse, assumendo quell’antica piega circolare capace di liberarla dalla terribile gravità della successione e di farla riflettere su chi aveva deciso l’oblio.
Ma l’oblio sta intrinseco alla presenza, non è mai totale dimenticanza ed ecco infatti, nel continuare ad affacciarsi sul mare, la folla di voci non dette, ecco la gioia mai spenta per la visione di lui, del suo amore non consumato, ecco l’attesa di una voce che sappia ridirle come stai, che cosa fai,  pensi un poco a me.
Con il lento calar delle ombre, tornava ad affacciarsi alla finestra e trovava meraviglioso lo spettacolo della luna che si specchiava sul mare e più in là delle stelle lievemente tremule e fredde, diverse da quelle ammirate insieme a Giorgio, sulle colline delle Langhe e che il dolce peso delle memorie prese a fargliele totalmente rivivere. Erano stati ad Alba, ove Giorgio era stato invitato per tenere una conferenza al Rotary club e la sera erano stati ospitati in un Golf Relais sulla Colline di S. Anna.
Dopo la cena, a base di tartufi, formaggi, carni della Granda e vini profumati, mano nella mano, uscirono a guardar le stelle: “Vedi,- le sussurrava Giorgio, tenendola stretta a sé-, come sono brulicanti e calde in prossimità di quel fasciame biancastro che è la via Lattea.. E’ immenso questa sera il cielo e mi sembra di sentire-non le senti anche tu ?-le voci delle sette sirene che intonano note di bellezza e di armonia”.
Giulia, stringendosi a lui, lo baciò e poi continuò a favoleggiare “Credo fermamente che una rete invisibile lega il cielo alla terra. Fili innumerevoli sono sempre pronti a stringersi, ma non in modo fatale, bensì ad opera delle divinità, Adrastea, Moira, Ananke, Ate, Dike, Nemesi, Erinni, tutte donne, tutte figure della necessità che scendono dal cielo per sanare gli eccessi del vivere, vegliando ovunque, al fine che tutti gli esseri abbiano la loro parte perché nessuno ecceda da ciò che è giustizia, vendetta, pudore”.
A volte questa intensa ruminazione le destava una preoccupazione continua, un senso di paura di aver infranto, con la sua fuga, un amore che ora tornava a rivivere con tutto se stesso. E allora si diceva che le sue paure non dovevano diluirsi in una sorta di randagismo psicologico o essere negate, né le conveniva frondeggiare fra profondità e superficie, tra vita raccolta e vita dispersiva, ora cicala, ora formica.
Meglio maturare una disposizione d’animo di alleggerimento, in forza di un rinnovato apprezzamento del fluire della vita e a vantaggio di una visione nuova e più benevola di sé e del proprio amore.
E così rinfrancata un giorno, le venne voglia di stare in un posto della Liguria altrettanto bello e arrivò a Camogli. Da lì prese il battello per S. Fruttuoso. Arrivata, visitò il monastero e poi in spiaggia, un coloratissimo mare azzurro chiaro, acqua da godere pienamente. Aveva con sé la maschera con il tubo per respirare e si divertì a inseguire grossi pesci scansando le meduse.
Poi si fece portare da un pescatore nei pressi del Cristo degli Abissi e s’immerse in mare; il bagliore del mezzogiorno filtrava nell’acqua creando fasci di luce che creavano uno straordinario alone attorno al Cristo.
Tornata a riva si offrì un pranzo a base di pesce in un incantevole ristorantino sul mare e si donò pure il tempo di riflettere che quei giochi di luce e di silenzio vissuti in quel mare prefiguravano la luce che passata la tempesta avrebbe orientato i propri percorsi quotidiani e non solo.
Ricordava la metafora del navigante che, quando la tempesta infuria e le vele non reggono più, mette le mani ai remi e usa la sua astuzia, la sua forza per ritrovare la bonaccia e infine la riva. Ed era ormai sicura di essere capace di fronteggiare la sua tempesta.
Una comprensione favorita pure dalla sua quotidianità in Lerici ove spesso usciva da casa per fa compere. Le piaceva passeggiare all’ombra dei porticati e ripetere il rito del Buongiorno, prendendo un cappuccino al bar di Alfio che la salutava con slancio e ammirazione –“Buongiorno, signora Giulia, ecco qui il suo cappuccino, caldo caldo e il solito cornetto vuoto, oggi è ancora più bella, come mai?”.
Gli sorrideva e poi se ne andava contenta fino alla boutique del pane ove trovava la signora Noemi, già avanti negli anni: “Buongiorno, cara Giulia, come sta bene oggi con quella felpa  azzurra, è un colore che sceglieva spesso anche la sua nonna, sa, sempre elegante e bella, e lei le assomiglia anche se è molto più bella!”.
Con il suo cartoccio di pane, focaccia e complimenti se ne usciva nella chiarità del mare e, seduta su una panchina, spaziava  con lo sguardo sulle bellezze del golfo. Le pareva di ascoltare, attraverso i flussi del mare,  le voci e i sentimenti di quanti, poeti, scrittori, artisti, avevano li soggiornato, non più dubitando di avere la felicità accanto a sé e la possibilità di non riservare ancora al sogno la realtà di aver vicino il suo Giorgio.
Godeva di quella libertà come di una ricreazione, una restaurazione. Il suo spirito fattosi più libero si riappropriava dei propri affetti in una completa redenzione, della propria madre che l’aveva sempre tenuta in suo potere, a lungo impedendole di crescere, dell’indifferenza del padre che non l’aveva aiutata a superare il suo rapporto infantile con la madre e a raggiungere il mondo esterno per cui provare affetto.
Ora capiva che l’eccesso di attaccamento materno s’inscriveva in una vera catena ereditaria che si tramanda di generazione in generazione come un fatto non morboso. Comprendeva pure l’insufficiente senso della genitorialità del padre dovuta a remissività di carattere, ma anche ad una società sempre più organizzata tecnologicamente, volta a provvedere a tutti casi degli individui e quindi come una grande madre che ponendosi come corrispondente ai bisogni del sé demolisce la figura del padre.
Riusciva così a redimere il passato, serbando di esso le cose migliori, costruendosi un buon oggetto interiore e nutrendo di piacevoli vibrazioni il suo sentire. Così decise di telefonare e di tornare a casa del suo Giorgio.

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