(Foto Il Post) |
Il
rifiuto dei funerali di Stato da parte di molti dei familiari delle vittime di
Genova è il segnale della gravità della sfiducia nelle istituzioni
(ap) Le bandiere a mezz’asta in tutt’Italia, i
rintocchi delle campane in città. Genova
e il Paese si sono fermati per rendere omaggio alle vittime del ponte
Morandi. Funerali di
Stato, celebrati nella Fiera del capoluogo ligure alla presenza di
Mattarella. Ma in tanti hanno detto no.
Non solo mancavano alcune delle persone travolte dal
crollo del viadotto dell’autostrada A10 perché ancora disperse sotto la
montagna di detriti e non ancora ritrovate. Molti, ed è la grande maggioranza
delle famiglie delle 38 vittime, hanno rifiutato la cerimonia organizzata dalla
Stato. Certo, a volte per il bisogno di vivere in modo privato e riservato il
dolore; sarebbe sembrato altrimenti «fare una passarella», una cosa
inappropriata. Ma più spesso per altro. «Quelle cose pubbliche non mi
piacciono», ha detto una madre. «Non ho più fiducia in questo Stato», ha
spiegato la sorella di un’altra vittima.
Ecco, la rabbia e la sfiducia verso le istituzioni,
il collante di questa decisione così forte e preoccupante di fronte ad una
tragedia tanto grande. Un sentimento diffuso e non nuovo emerso anche in altre
occasioni recenti. Nel dramma si smarrisce il senso di unità, la percezione di
una sentita partecipazione al dolore: affiora una divisione che rimarca il
senso di distanza e contrapposizione tra la gente comune e il potere pubblico.
Sembra difficile pensare che il rifiuto dei familiari
fosse rivolto verso chiunque si sia trovato, ora o in passato, a rappresentare
lo Stato. Non certo i 320
vigili del fuoco che hanno scavato per giorni alla ricerca di
sopravvissuti, o solo per ritrovare i corpi massacrati dal cemento. Applauditi calorosamente,
in una loro rappresentanza, durante la cerimonia. Neppure quel poliziotto ripreso da un
video di un passante mentre, fermamente ma con garbo, convinceva i proprietari
delle auto rimaste in bilico sul viadotto a non mettere in pericolo la loro e
altrui vita solo per riprendersi i loro mezzi. O ancora il personale sanitario
che ha sostenuto e rassicurato i tanti superstiti o i parenti sotto shock.
Tanto meno infine la figura che tutti rappresenta, il presidente Mattarella, al
quale i familiari hanno ricambiato con affetto l’abbraccio di solidarietà
umana.
Dunque ancora una volta la rabbia è rivolta verso la
politica, che, anche in questa occasione sventurata, non ha mancato di dare
prova della sua incapacità a gestire eventi traumatici. Un rimpallo di accuse
tra gli esponenti del governo gialloverde e le precedenti maggioranze, l’ennesima
scaramuccia propagandistica. Come se quella del ruolo dello Stato – controllo,
indirizzo, vigilanza – nella vita pubblica e sociale del paese non fosse la
questione irrisolta in economia come in ogni altro settore di interesse generale,
dalla scuola alla sanità.
Periodicamente si fanno i conti, sempre più salati,
con l’inerzia delle istituzioni – ognuna per suo conto e nel proprio ambito – e
l’assenza di un’idea di progresso, come linea guida del fare politica. Da cui
dipende tutto, la manutenzione dell’esistente, la riparazione dei danni, la
prevenzione dei pericoli, in sostanza una capacità progettuale fondata su
un’idea di società che sa scegliere e mettere in atto delle buone pratiche.
Immaginare un futuro. Non solo pensare a distruggere
il passato, solo perché tale, a prescindere dalla qualità delle decisioni e
dagli impegni già valutati e liberamente assunti. Oppure rispondere alle
necessità contingenti con la logica della risposta immediata, ad effetto,
capace di riscuotere facili applausi dalla folla giustamente arrabbiata, ma
senza valutazione né delle cause dei disastri né dei modi per porvi rimedio.
I costi della spregiudicata esaltazione
dell’incompetenza, e dell’assunzione dell’inesperienza come valore sociale si
avvertono in tanti passi. Non sorprendono le parole sprezzanti di questi giorni
(“Non
ci servono codicilli, la giusta causa della revoca delle concessioni ad
Autostrade sono i morti”, Di Maio), né quelle, allarmanti, dello stesso
presidente del Consiglio, Conte, un avvocato (“Non
possiamo aspettare i tempi della giustizia”). Una fuga dai compiti della
buona politica, meglio le rapide scorciatoie e le confuse semplificazioni, che
mettono ancor più in pericolo la coesione nazionale.
I “codicilli” sono gli strumenti del sapere oculato. I
tempi della giustizia sono quelli del diritto, delle garanzie e del rispetto di
valori condivisi. Senza gli uni e gli altri, difficile l’accertamento accurato
dei fatti, e l’individuazione delle responsabilità, a tutti i livelli. Oltre,
ci sono solo processi sommari: eccitano gli animi ma non risolvono alcun
problema.
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