di
Marina Zinzani
Tratto
da I racconti
della pioggia
(ap)
Il tema della pioggia ricorre in storie differenti, soprattutto di donne,
animate da sentimenti
contrastanti.
Martina
era bella. Con le labbra a forma di cuore. Martina sorrideva a chiunque. Martina aveva i capelli biondi di suo
padre e gli occhi scuri di sua madre. Martina era un incanto. Martina non
dormiva la notte.
Le
giornate erano lunghe, in casa. Chiara allora prendeva Martina, la metteva nel
passeggino, e la portava nei giardini.
A volte si portava un giornale, a volte incontrava qualche altra madre e
si sedeva sulla panchina con lei, e parlava. Veramente parlava poco, e solo
della sua bambina che in quei sei mesi le aveva cambiato la vita.
Aveva
conosciuto Alessandra proprio ai giardini, lei era la mamma di Tommaso, un
bimbo paffuto di qualche mese in più di Martina. Sua madre diceva che era come
non averlo: dormiva tutta la notte, era buono, un bambino buono.
La
maternità era una grande cosa. Questo aveva sempre pensato Chiara. Non avrebbe
mai concepito non essere madre, e non capiva chi preferiva essere più libero,
avere meno problemi, e non avere figli. Aveva visto, in quelle coppie, qualcosa
di sterile ed egoista, aveva pensato che le donne che rinunciavano ad avere
figli si perdevano qualcosa, avevano una nota diversa, quasi contro natura.
Questo
aveva pensato sempre, e negli anni di fidanzamento, e poi all’inizio del
matrimonio, aveva fantasticato con Roberto sul bambino che avrebbero avuto. Magari
due, chissà. Quando vedeva dei completini
per bambine, nastri da mettere nei capelli, vestiti da adulti che
apparivano buffi ed irresistibili indossati dai bambini, se li immaginava sulla
bambina che avrebbe avuto. Perché aveva pensato sempre ad una bambina, quando
si parlava di figli, quasi se lo sentisse che sarebbe stata una femmina.
Martina
era arrivata, e a tutti era sembrata la bambina più bella del mondo. Quei tutti
che erano suo marito, i suoi genitori, i suoceri, i fratelli, i cognati. Il suo
mondo. Martina, con i suoi boccoli biondi, incantava.
Chiara
aveva ancora dei mesi davanti, prima di riprendere il lavoro. Certo, non
navigava nell’oro, non poteva fare solo la mamma. E allora aveva già preparato
i suoi mesi futuri: si sarebbe alzata presto, molto presto, avrebbe poi portato
la piccola da sua madre, e sarebbe tornata a riprenderla la sera. Mica lo
davano il part-time, nella sua ditta. Otto ore, otto ore di lavoro e una
bambina da gestire. Anche la casa da gestire, veramente. Perché da Roberto
veniva un aiuto blando, impacciato. Molti uomini erano così.
Era
un giorno di festa, quello. Si festeggiava il compleanno di suo fratello, e
tutti erano andati a casa dei suoi genitori. Il lavoro era ripreso, e lei aveva
cominciato la vita che aveva programmato: sua madre avrebbe seguito Martina.
Non poteva muoversi, sua madre, andare da lei, perché aveva anche la nonna da
seguire, e non poteva lasciarla sola. Ci si arrangiava, certo c’erano dei
sacrifici, degli orari da rispettare, ma lo facevano tutti, tutte le sue
colleghe con i figli correvano, prigioniere di orari.
Ecco,
prigioniere… Il giorno di festa era come altri giorni lieti, in cui la famiglia
si riuniva, e tutti erano attorno a Martina, suo padre, suo fratello che la
teneva in braccio e ancora non aveva figli, sua sorella che la coccolava e le
portava ogni volta un piccolo regalo. Fu in quel giorno lieto che cominciò.
Aveva voglia di piangere. Cominciò la sua voglia di piangere.
La
tavola imbandita, Roberto che parlava con suo fratello, la torta che sua madre
aveva preparato, la nonna dalla salute malferma e vestita elegante per
l’occasione: andava tutto bene, Martina se la dividevano con desiderio, era il
centro dell’attenzione. Perché era bella, Martina, anche se non dormiva la
notte.
Otto
ore. Otto ore di lavoro e sua madre che gestiva la piccola. Certo, dormiva, la
piccola. Paradossalmente dormiva più di giorno che di notte, capitava ai
bambini. Ore frammentate di sonno, pezzi di ore. Gli occhi gonfi, la mattina.
La sveglia guardata con gli occhi aperti alle cinque del mattino. E poi, poi si
cominciava… Cominciava la serie di cose da fare…
Era
cominciata lì a tavola, la voglia di piangere. Ma nessuno se n’era accorto.
Anzi, aveva sorriso, mentre suo fratello scattava le foto, mentre tutti sorridevano.
Li guardava, e improvvisamente li sentiva estranei, come se si stesse
allontanando da loro…
Poi
era accaduto un altro giorno. Era in macchina, stava tornando a casa, doveva
andare da sua madre e riprendere Martina. Era già buio ed era anche tardi,
l’avevano trattenuta in ufficio. Non ce la faceva a fare la spesa. Mancavano
delle cose in casa, delle cose importanti, avrebbe potuto prenderle Roberto, ma
chissà dov’era a quell’ora, chissà se sapeva cosa ci voleva in casa… Mancava
anche il sale, il sale grosso, quello che si mette nell’acqua per cuocere la
pasta, come avrebbe fatto, la sera mangiavano sempre la pasta… Il sale grosso,
il sale… Le luci delle auto, la tristezza, ecco, riprendeva, quella cosa che
aveva sentito a casa dei suoi, quella cosa che saliva su, su in gola e poi
usciva, erano lacrime che uscivano, lì, in auto, nel traffico di gente che
torna a casa la sera… Cos’era successo… Niente era successo… Mancava solo il
sale, avrebbe dovuto fare la pasta senza il sale…
Si
fermò qualche minuto davanti alla casa di sua madre, senza entrare. Si guardò
allo specchietto della macchina, si asciugò gli occhi. Si vide brutta, rugosa.
Improvvisamente. E aveva solo trent’anni. Doveva entrare, prendere Martina, e
riportarla a casa, e ricominciare, ricominciare le solite cose della sera,
preparare la cena, rimettere in ordine, fare la lavatrice…
Altro
compleanno, altra festa. Nella sua famiglia non si dimenticava mai di
festeggiare. Ci si trovava, tutti insieme, perché era una famiglia unita, la
sua. Che le voleva bene, innamorata di Martina, che aveva accolto Roberto con
tanto affetto.
Sua
cognata Mirka aveva portato un giocattolo a Martina. Era elegante, con una
calzamaglia che mostrava gambe snelle, un maglione apparentemente trasandato ma
di moda, stivaletti di camoscio.
Bella, truccata, con il volto disteso. Si abbracciarono, poi andarono nel
soggiorno, dove Martina era già in braccio al nonno.
Chiara
andò poi in cucina. Sua madre era intenta a togliere l’arrosto dal forno, era
ora di andare a tavola. Era diversa dal solito, sua madre, come avesse un
pensiero, un malumore…
“Adesso
l’ho saputo… me l’ha detto lei… tuo fratello non avrà mai figli, Mirka non ne
vuole…” disse la donna scuotendo la testa.
Erano
poche, frettolose parole, a cui non seguì altro, perché proprio Mirka era
entrata anche lei in cucina.
Fu
a tavola che suo fratello parlò del viaggio che avevano appena fatto. New York,
stupenda Manhattan, è tranquilla, non ci si crede le cose che ci sono, e giù a parlare e gli occhi gli
brillavano a suo fratello, e anche sua moglie Mirka commentava, lo
interrompeva, diceva: “Perché non racconti…?” e poi Broadway, avevano visto
anche un musical e poi mille altre cose, e avevano affittato una macchina e
avevano girato, girato, e giù nomi di città che si sentono alla televisione…
una cosa incredibile, incredibile…
E
allora Chiara guardò Mirka e sentì dentro di sé una sensazione cattiva.
Invidia. Lei poteva andare, muoversi, decidere di prendere un aereo e andare a
New York, vedere un musical a
Broadway, affittare un auto, quante cose accidenti poteva fare, in fondo
avevano due stipendi e nessun figlio da mantenere…
Invidia.
Invidia perché sua cognata si poteva muovere, perché era briosa, solare. Lei
sentiva la notte, e non poteva dirlo a nessuno. Lo sapeva com’erano fatti i
suoi, e anche Roberto: ad ogni problema c’era il medico giusto, mica capivano
loro… Mica capivano che non avrebbe più fatto quello che faceva prima, alzarsi
la mattina e decidere della sua giornata… I figli, ora aveva la responsabilità
di sua figlia, i suoi orari erano scanditi dalle necessità della piccola.
Guardò
Martina, in braccio a suo padre. Si sentì un mostro. Mirka poteva fare tutti i
viaggi che voleva, ma non avrebbe mai saputo cosa significava tenere un figlio
un braccio… Erano pensieri che cercavano di tamponare l’ansia, il disagio, che
salivano sempre di più in gola. Come quel precedente compleanno, come quella
sera in macchina…
Si
alzò, si diresse in bagno. Fece scorrere l’acqua del lavandino e se la buttò
nella faccia. Devi farti forte, non farti vedere da nessuno che ti viene da
piangere…
Mentre
si asciugava il volto, guardò dalla finestra del bagno. Pioveva. Pioveva e la
sua era una famiglia felice, non poteva desiderare di meglio. Pioveva e la
pioggia aveva qualcosa di così simile al suo cuore, la malinconia delle cose
non dette, che non si potevano dire… Non sarebbe stata più libera… Che discorso
orrendo, schifoso… Non ce l’avrebbe fatta a gestire tutto, tutti quegli orari,
il lavoro, la casa, la bambina… Eppure come facevano le altre donne… Si doveva
vergognare, di pensare a quelle cose, mentre c’era chi stava peggio, chi non
aveva aiuti, chi era solo…
La
pioggia cadeva, delle lacrime caddero sul suo volto. L’ansia, il batticuore, il
mostro che si stava risvegliando e la stava trascinando giù. Depressione post
partum? Medicine, psicologi, ci sono medicine che fanno miracoli in questo
caso, succede, succede alle donne, hanno tante cose da fare, devono riprendere
a lavorare, con dei ritmi assurdi, inumani, e non possono stare con i loro
figli… Quante volte, alla televisione, aveva sentito questi discorsi…
Doveva
essersi abbandonata un po’ troppo in bagno, perché sua madre aveva bussato alla
porta, chiedendole se stava bene.
Allora
lei uscì, con un mezzo sorriso, come se niente fosse accaduto.
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