Riga, Lettonia (foto ap) |
Rappresentare gli oggetti: dura prova in tutti i campi. La fotografia è alle prese con la tendenza a riprendere e condividere ogni cosa sui social a rischio di insensatezza. Rimaniamo sempre affascinati davanti alle immagini che colgono sottili sfumature della realtà
di Bianca Mannu
(Commento a Fotografare, un’arte che si confronta con la vita, PL, 6/5/19)
Abbiamo
appreso dagli sviluppi teorici e sperimentali della fisica subatomica che
l’osservatore muta e interferisce con l’oggetto osservato e che quest’ultimo
non è determinabile, distinguibile, misurabile in ogni sua condizione. Abbiamo
altresì appreso dalla psicologia del profondo che l’individualità stessa
dell’uomo non è un blocco, ma un processo dinamico di istanze individuali e
storico culturali che operano prima e oltre la formazione personale matura.
Abbiamo
avuto conferme e approfondimenti nel senso anzidetto dalla linguistica e dagli
studi di antropologia culturale, cioè dalla scoperta secondo cui i linguaggi (verbali,
segnici, simbolici) non sono epifenomeni rispetto alle strutture naturali di
esistenza delle società umane, ma presiedono dall’inizio ai loro modi di
esistere dando vita a modelli sociolinguistici che si mantengono nel tempo, che
regolano il dispiegarsi delle tipologie individuali correlate con quei
presupposti.
L’inestricabile
compenetrazione tra soggettività umana e oggettività naturale (che è la soggettività
di altri) ha sempre innestato una prassi di “appropriazione” e creato la
necessità di strategie di avvicinamento. La prassi acquisitiva ha anche dovuto
sacrificarsi parzialmente in favore della prassi teoretica o conoscitiva:
l’oggetto desiderato diviene oggetto di osservazione, obiettivo di strategie
più raffinate.
Ma
gli oggetti del conoscere divengono talora altri rispetto all’immediatezza del
nostro quotidiano. E ciò ha molte conseguenze. Fare i conti con la necessità di
mettere in pausa l’oggetto di studio, renderlo docile all’osservazione o
altrimenti mutare i modi della postura osservativa da parte del soggetto attivo,
adattare la prassi tecnica alla presunta natura dell’oggetto, sospendere la
prassi insoddisfacente o fallita, dunque mettere in piedi (sognare, inventare,
immaginare) una teoria più specifica o più ampia dell’oggetto stesso, magari
dover scoprire che l’oggetto va ridefinito perché altro rispetto alla precedente
concezione e rispetto a un osservatore che ha mutato la relazione con il
presunto oggetto.
La
fotografia non si esime da queste strategie, perché la sua pratica ha
abbandonato la condizione strumentale per divenire terreno di strutturazione
linguistica.
La
scoperta dell’attività chimica della luce e la collaterale ricerca del mezzo
più sensibile e maneggevole a captarne e a conservarne le impressioni ha acceso
la curiosità e l’investigazione di studiosi e artisti nei secoli. Presumo che
il motivo profondo di tali ricerche sia stato quello di poter osservare un
oggetto o parti di esso in condizioni di perfetto controllo. Non a caso gli
studi leonardeschi di anatomia si sono probabilmente avvalsi di cadaveri per i
suoi “vantaggi”: immobilità, segretezza, relativa tranquillità morale.
L’affinarsi
della tecnica ha consentito l’uso della fotografia come protocollo di ricerche
seriali. Per esempio, per ordinare in sequenze spazio-temporali i micro
movimenti di un oggetto (oggetto fisico o concettuale), misurarne le entità, trasformarle
in immagini macroscopiche recepibili a occhio nudo. Penso alle osservazioni
atmosferiche, alle alterazioni dei ghiacciai col mutare delle temperature, alle
trasformazioni di piante col cambio di stagione, alle osservazioni spaziali.
Una
tale attività tanto intelligente quanto frenetica, ha consentito varie
codificazioni delle sue articolazioni: il mezzo è diventato vero e proprio
organo di procedimenti aperti a molteplici registri. Non ultimi quelli con cui
gli artisti fotografi gettano l’occhio sul quotidiano, mirando a cogliere
nell’attimo ciò che sembra e non è banale o ciò che, nella sua ripetizione
trita e sciolta nell’abitudine disattenta, assume di colpo, e per effetto di
uno sguardo interrogante, una connotazione inquietante o straniante o perfino magica.
Il
mutamento di prospettiva del soggetto muta l’assetto dell’oggetto, e spesso
l’oggetto stesso muta di consistenza e di significato. Per esempio, l’idea che
l’immagine dell’oggetto rappresenti tutta la realtà possibile dell’oggetto viene
confutata da un particolare trascurato, non rilevato in precedenza. L’immagine e
l’oggetto rappresentati sono spie, indizi di qualcosa d’altro implicato nel
nostro vivere come problema da risolvere o anche come quesito da formulare e
prassi da travolgere.
La
fotografia insiste nella fissazione istantanea. Essa ha fatto nascere ritrattisti
e paesaggisti senza pennello, ha consentito l’estroflessione di un dentro
psichico del fotografo in un fuori dai connotati oggettuali. Oppure consente un
viaggio nel non rappresentabile che dice
o vuole dire per interposta
immagine, che forse allude al non ancora raffigurato e persino all’indicibile.
Come
per altri linguaggi, la fotografia assume e proietta simboli, stilemi e ritmi,
cromatismi e allusioni. E certo, quando il fruitore l’incontra, vi proietta il
proprio senso, la propria capacità di lettura.
Con
l’espansione popolare delle tecnologie la ripresa fotografica ha contagiato
qualche miliardo di persone, creando una sorta di propensione compulsiva a
ritrarsi e a ritrarre qualunque cosa, a intervenire tecnicamente sull’immagine
e a considerare il manufatto più espressivo, potente ed esaustivo di altre
codificazioni e altri atti linguistici.
Nella
vulgata l’immagine ha ripreso la sua pretesa di poter rappresentare un universo
non definito, di poter assumere il collegamento senza mediazione con la “cosa” oggetto-evento.
Il mio bla bla bla fotografico entra
in una comunità dai contenuti più vari e spuri, accresce in me l’illusione di
poter in qualche modo dispormi nelle relazioni che mi concernono secondo
direzioni per me convenienti, e anche di ritenere che ciò che io ho fissato in
immagine sia testimonianza incontrovertibile della totalità del comunicabile. E
questo è l’aspetto più ambiguo e ambivalente di questa pratica comunicativa.
Il
fotografo artista non è l’ingenuo possessore del cellulare di ultima
generazione con cui brucare a caso le erbe dell’orto personale e della prateria.
Per come me lo immagino io, è un cacciatore sistematico, che annusa nel mondo
l’annidarsi dei suoi oggetti, dei suoi “luoghi” speciali. Legge le pagine del
mondo che toccano la sua sensibilità, educata a farsi scalfire e a essere pronta
a cogliere anche l’elemento casuale per inserirlo in un discorso, che si
mantiene tuttavia duttile e mobile.
Se
paesaggista, l’artista sarà disposto a cogliere gli aspetti estetici segnati
dalla distanza tra la svagata frequentazione del convenzionale e la singolarità
d’un impatto sorprendente e irripetibile: colori, forme, effetti formali e
singolarità che si prestano a allusioni, di consistenza mentale o emotiva,
quasi subliminali. Per effetto di associazioni tra percezioni suscettibili di
senso e il rivenire di materiali emozionali, spettri dormienti nelle catacombe
della mente, l’artista scommette sull’esito leggibile della combinazione. E si
attrezza per il dopo, critico.
Ecco
io credo che Angelo Perrone faccia grosso modo così, per quel poco che posso intuire
io che sono quasi analfabeta di fotografia e che non ho neppure la pretesa di
essere fotografo della domenica, uno dei parlanti della numerosa comunità fotografica
sparpagliata nei social.
Infatti
ho colto più volte nelle immagini scattate da Perrone, o da lui prescelte a
commento di un testo, una malinconia senza dolore, uno stupore diretto quasi
fanciullesco, uno struggimento per l’impalpabile colpo d’ala che attraversa
l’immagine come un messaggio intraducibile di cui ti rimane, incolmabile, la
sete di quanto pareva esservi inscritto.
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