di Marina Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia
(ap)
La pioggia è scenario quieto e rassicurante, oppure angoscioso e terrificante.
Metafora di gioie, dolori, interrogativi. Il tema della pioggia, esile filo che
annoda misteriosamente la trama di alcuni racconti.
Michele guardò l’orologio, la festa stava
finendo e ora rimaneva tutto lo
scenario di quando le feste finivano: i piatti e i bicchieri di plastica,
avanzi di torte, pizzette e tartine in qualche cabaret.
Erano così le feste, e anche quella non era stata
diversa dalle altre. Una sala del ristorante tutta per quell’evento, la torta
finale, una candelina che simboleggiava tante candeline, per la precisione
cinquanta. Cinquant’anni, questo Michele festeggiava, e quella festa l’aveva
voluta sua moglie Lidia, aveva fatto tutto lei, invitato gli amici, qualche
parente. Bisognava festeggiare, cinquanta erano un traguardo, e allora lui
l’aveva lasciata fare. Lei, d’altronde, adorava quelle cose, essere perfetta
per ogni ricorrenza, e davvero non dimenticava mai niente.
A fine serata, quando stava pensando ormai di andare via, Michele si era
fermato sul terrazzo del ristorante che veniva usato dai
fumatori, una sorta di rifugio per
assaporare un piacere per pochi. Aveva voglia di prendere un po’ d’aria, era aprile
e si sentiva già l’odore della primavera, delle serate in cui si usciva e c’era
un’atmosfera particolare, in giro. C’era lo scirocco, era stato caldo nei
giorni precedenti, un caldo insolito per aprile. Una coppia stava parlando, il
fumo ombreggiava il volto della donna.
Michele guardava sotto, le macchine che
passavano, la città che si preparava alla notte, la notte di chi andava in
qualche locale e di chi stava a casa, le luci accese alle finestre che fra poco
si sarebbero spente.
C’era una ragazza davanti a lui, era alta, sui
trent’anni, con i capelli lunghi. Decisamente bella. Fumava e guardava dal
balcone le luci della città. Se ne stava lì silenziosa, con uno sguardo un po’
malinconico. Lui si appoggiò con i gomiti sul balcone.
“Pensa che pioverà? C’è scirocco da giorni, è un
caldo innaturale” disse Michele.
“Forse stanotte, chissà.”
La ragazza, parlando, gli sorrise, la luce del
balcone illuminava per metà il suo volto.
“E’ lei il festeggiato?”
“Già.”
“E cosa festeggia?”
“Cinquant’anni.”
La ragazza ebbe un sorriso compiaciuto. Ecco,
era iniziata così. Si era innamorato di nuovo a cinquant’anni.
L’aveva rivista, giorni dopo. Perché quella sera
lui le aveva chiesto il numero di telefono e lei gliel’aveva dato, cose che non
si dovrebbero fare, neanche lei doveva accettare una richiesta simile, e invece
aveva accettato, e aveva poi accettato di rivederlo per un aperitivo, e
l’aperitivo era diventato una passeggiata e la passeggiata una notte, una notte
insieme.
Cinquant’anni erano un bilancio, forse. Di cose
giuste che Michele aveva fatto, senza colpi di testa, con una sequenza di
giorni e di anni che gli erano apparsi ad un certo punto tutti uguali, senza grandi scossoni. Se
li ricordava, quegli anni, passati fra un lavoro impegnativo e il sabato e la
domenica a casa, le vacanze al mare, le gite in montagna. Certo, non era stata
una brutta vita, i figli stavano crescendo bene, e sua moglie gli era sempre
stata accanto, con i normali alti e bassi.
Non sapeva perché era iniziata, Nicole gli era
apparsa quella sera, e le parole di lui per avere il suo numero di telefono gli
erano uscite così, senza pensare. Anche gli appuntamenti clandestini in un
albergo erano sembrati naturali.
Solo le notti, ogni tanto, portavano sogni inquieti.
Non seppe perché quel giorno voleva andare nel
negozio di Nicole. Veramente si era fermato nel bar all’angolo, lei aveva un
negozio di fiori raffinato, pieno
di gusto, come lei che sapeva dare
armonia ad ogni cosa.
Lui era uscito prima dal lavoro ed era andato a
sedersi al bar, a prendere una birra. Poi sarebbe entrato nel suo negozio,
voleva solo salutarla, dirle che gli mancava. Erano giorni che non si vedevano,
e sentiva ormai chiaramente che ci poteva essere un’altra vita, dopo i
cinquant’anni. La vita per sé, anche.
Prima era stato sempre qualcuno, utile a
qualcuno: il padre, il marito, il figlio, forse mai veramente aveva fatto le
cose solo per sé, per il suo piacere. Essere padre voleva dire tante cose,
impegni, preoccupazioni, fatiche fatte col sorriso, sempre, anche quando non ne
aveva voglia, essere marito significava stare, dopo tanti anni, con una donna
che un tempo aveva desiderato e che ora era come un’amica, essere figlio aveva
significato non deludere le aspettative dei suoi. No, ora sentiva, vedeva
chiaramente che ci potevano essere davanti a lui degli anni più leggeri, più
giovani, se era possibile, perché essere qualcuno, soddisfare le aspettative
degli altri, comportava invecchiare, lasciare andare i pensieri leggeri.
Nicole era questo, il suo corpo aveva portato ad
un risveglio, la sua vicinanza aveva portato ad una nascita dentro di lui, la
voglia di fare, di alzarsi la mattina, di andare a correre, di andare a nuoto,
di farsi solo una passeggiata lungo la Martesana, di sdraiarsi sull’erba come
due ragazzini.
Lui, al tavolino al bar, beveva una birra, la
beveva dalla bottiglia, come quando era ragazzo, e si sentiva quasi felice.
Certo, sapeva a cosa sarebbe andato incontro se quella relazione fosse
continuata, sapeva che stava scherzando con il fuoco, mica Lidia e i figli
l’avrebbero capito, mica potevano accettare che lui, da un momento all’altro,
se ne andava per una di vent’anni in meno. Queste cose lo incupivano, ma
dall’altra parte c’era una fonte
di energia nuova, pulita, come se qualcuno avesse aperto un rubinetto e lui
avesse ripreso la voglia di vivere. Quella che aveva chi aveva superato una
brutta malattia, e si godeva improvvisamente tutto, di una giornata.
Era entrata una ragazza, dentro il negozio,
appariscente fra l’altro. Poco dopo si era aperta la porta ed era uscita
Nicole.
Michele stava per alzarsi, voleva andarle
incontro. Ma lei era uscita, quasi come avesse un appuntamento, guardava
l’orologio. Si era fermata una macchina, lei si guardò attorno, e salì. Dopo
avere dato un bacio all’uomo che guidava.
Michele toccava la bottiglia della birra,
l’etichetta ancora bagnata, l’acqua che aveva inumidito le sue dita. Si alzò e
pagò.
Era scesa una leggera pioggia, e quella pioggia,
la malinconia di quella pioggia, lui se la sentiva dentro. Camminava e vedeva
le persone, le ragazze dagli abiti così disinvolti, ragazze sorridenti e un po’
spavalde com’era forse sua figlia,
chissà se sapevano cos’era l’amore, si chiese, chissà se stavano ancora male
per qualcuno, quando una storia finiva. Le vetrine esponevano manichini,
espressioni di donne alte e magre, dagli sguardi sfuggenti. Donne fredde. I
capelli di Nicole, le labbra di Nicole, la sua pelle bianca, il profumo, i
vestiti raffinati, le mani, le sue mani…
Tutte le donne che gli passavano a fianco erano
esseri lontani, di cui non capiva il mondo, di cui non sapeva niente. Forse
erano così, i rapporti fra le persone. Si sentì stanco, improvvisamente, ma
continuò a vagare, a camminare nelle strade dei negozi, dei bar, della gente
che si ritrovava per l’aperitivo, che aveva voglia di raccontarsi qualcosa,
gente che aveva appuntamenti, discorsi interessanti da fare, progetti per un
viaggio, una serata, magari al cinema, o in un teatro, c’era gente che si
incontrava e faceva cose interessanti, cose che facevano venire voglia di
prepararsi, di vestirsi bene, di essere magri, di avere un bel fisico, gente
che viveva, viveva meglio di lui…
Nei giorni seguenti non ebbe il coraggio di
telefonarle, non la cercò. Neanche lei lo fece.
Una sera, quando i ragazzi erano usciti, Lidia
gli si era avvicinata, gli si era seduta accanto. Forse voleva parlare, forse
qualcosa aveva capito. Ma lui non se la sentiva di sostenere il suo sguardo,
quel modo di fare che faceva trasparire chissà quali pensieri e intuizioni, no,
non ce la faceva, perché da giorni stava male. Non sopportava più quella casa,
più quelle tazze della cucina così in fila, più i discorsi sempre uguali che la
moglie faceva, più i tentativi di parlare con i due figli, che si sentivano
solo seccati dalle sue inutili domande. In quella realtà si era inserita
Nicole, ed era stato come l’ultimo treno, un’ultima possibilità. E invece ora
era lì, chiuso in bagno, senza aver voglia di parlare con la moglie, senza il
coraggio di telefonare a Nicole e dirle che l’amava. Se anche l’avesse fatto si sarebbe sentito
vagamente buffo, un uomo che cercava una seconda giovinezza e lei che invece
aveva un altro.
La tristezza di quella sera era diventata la
tristezza di altre sere e poi malinconia, e la malinconia era diventata la
compagna delle sue giornate, gli anni passavano, aveva cinquant’anni, cosa
voleva fare a cinquant’anni… Propose alla moglie di uscire di più la domenica,
di fare qualche gita come quando erano ragazzi, ma lei era stanca, e aveva
sempre tante cose da fare la domenica…
La rivide un’altra volta, era a braccetto con un
ragazzo alto più di lei, sui trent’anni. Si incrociarono in un supermercato, si
scambiarono uno sguardo sorpreso, imbarazzato.
“Lo conosci?” sentì chiedere alla ragazza.
“Sì, di vista…”
Quelle parole Michele le sentì sfumate,
sfuocate, e sfumato e sfuocato diventò il suo mondo, le cose, la moglie che
stava da mezz’ora nel reparto casalinghi, la gente attorno che gli parve
brutta, insulsa, ogni cosa era vuota, ogni pensiero era vuoto, e lei, Nicole,
era come tante altre.
Solo lui vi aveva visto qualcosa, lui buffo e
stupido che stava mandando all’aria la famiglia. E quando la moglie gli si
avvicinò e gli mostrò finalmente un tegame che tanto cercava, lui abbozzò un
tiepido sorriso.
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