Scrivere è un “gioco” per conoscere la realtà e scoprire il mondo. Ma nella
letteratura, i risultati non corrispondono sempre
alle intenzioni. Meglio parlare dello stile?
di Davide
Morelli
Per cosa si scrive, indipendentemente
dal risultato? Per sfogo oppure per diletto. Per cogliere degli stati di animo
o per fare delle istantanee della realtà. Per sublimare gli impulsi sessuali o
il proprio disagio esistenziale. Per lasciare una traccia. Per conquistare una
ragazza. Per diventare famosi. Per fare soldi. Per sbarcare meglio il lunario.
Oppure per mettere ordine al proprio disordine o al disordine del mondo. Ognuno
ha il suo motivo o i suoi motivi.
Scrivere forse è allo stesso tempo un
modo per distrarsi dal pensiero della morte e un modo per prepararsi alla
morte. Forse aveva ragione il grande Giorgio Manganelli, ovvero che il
linguaggio è un gioco, un sempiterno "come se". La vera letteratura
può essere senza trama né macchinazione. La cosa importante è che abbia uno
stile. Pochissimi lo hanno. Siamo molti scriventi ma di scrittori ne
esistono davvero pochi. Siamo molti versificatori ma pochissimi sono i poeti.
Lo testimonia il fatto che pochi finiscono nei manuali di letteratura.
Per avere uno stile bisogna avere una
visione del mondo e non è facile avere una visione del mondo, vista la
complessità della società odierna. Ad esempio si parla tanto di capacità di
intendere e di volere, di pieno possesso delle proprie facoltà psichiche. Ma
forse oggi i giovani acquisiscono la capacità di intendere prima di un tempo,
sollecitati come sono da molti stimoli cognitivi. Eppure allo stesso tempo
acquisiscono forse la capacità di volere dopo rispetto ad un tempo perché il
mondo si è fatto più difficile, più eterogeneo e di più difficile comprensione.
Gadda parla di "grommero".
Montale parla di "matassa senza bandolo". La realtà già nel Novecento
diviene garbuglio, groviglio inestricabile. Le scienze umane teorizzano la
razionalità limitata. Immaginiamoci quindi quanto sia difficile avere uno stile
veramente originale e dire cose nuove per uno scrittore! Ogni scrittore forse è
sempre indeciso se provare a scrivere un libro totale (un'opera onnicomprensiva
che descriva il mondo intero) oppure un brano brevissimo in cui viene descritto
un particolare apparentemente insignificante ma che si rivela alla fine
essenziale, fondamentale.
Allo stesso modo ci sono persone che
cercano in amore l'esperienza totalizzante che duri tutta una vita ed
altre che inseguono il carpe diem. Per quale fine un essere umano scrive? In Meditazione milanese Gadda scrive che «gli n tendono
agli n+1 ma non sanno a cosa tendono, ché, se lo sapessero,
gli n+1 non esisterebbero già". L'uomo forse tende ad
n+2, ad n+3, ad n+infinito.
Questo significa che gli uomini
vogliono progredire infinitamente la loro conoscenza. L'uomo vuole incrementare
il sapere continuamente. Scrivere forse per chi ha pretese significa conoscere,
sapere. Ecco allora spiegato perché molti scrittori del Novecento hanno dato
voce al molteplice, hanno cercato di dare forma all'informe, hanno cercato di
volgersi agli infiniti possibili. Nel Novecento fiorisce la letteratura
combinatoria come quella di Perec e di Calvino. Scrivere significa allora
cercare di contemplare tutta la casistica degli eventi e delle dinamiche umane.
Ma quando si fa della letteratura un
sistema i problemi sono due: 1) bisogna definire cosa è un sistema e non è
affatto facile. 2) bisogna che il sistema sia aperto per accogliere tutti i
casi e le varianti del mondo. Il sistema chiuso significherebbe caos ed alla
fine implosione. In fondo lo stesso Chomsky ha messo in rilievo la creatività
del linguaggio umano, capace di produrre parole all'infinito. Forse ciò
significa che qualsiasi essere umano è un sistema aperto. Sicuramente il
linguaggio umano è un mirabile congegno dalle combinazioni inesauribili.
Ma sempre riguardo ai fini c'è da
considerare la loro eterogenesi, secondo cui ci possono sempre essere
conseguenze impreviste delle azioni umane. A volte i vizi privati possono
diventare pubbliche virtù come ne La
favola delle api di Mandeville. Altre volte si parte con la nobile
intenzione dell'aspirazione all'uguaglianza e si finisce con le dittature
comuniste sanguinarie. Il filosofo Augusto Del Noce parlava di eterogenesi dei
fini per quanto riguarda il marxismo.
Si sa sempre dove si parte ma non si sa
mai dove si arriva quando si pensa o si fa qualcosa. Un conto è
l'intenzione ed un altro è il risultato. Lo stesso Zeno nel celebre romanzo di
Svevo fa centro alla fine ma non nei bersagli mirati. Questo
probabilmente succede anche per l'arte. Fenoglio in un suo aforisma definiva
la scrittura come un "proiettile senza bersaglio". Che sia
questo il destino dell'uomo contemporaneo?
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