Nel paese dei delitti senza colpevoli, la strage del 2 agosto 1980 ha la singolarità d’essere un evento sul quale molto si è indagato. Ma rimane sconosciuto il movente
(Angelo Perrone) La strage di Bologna del 2 agosto
1980 fu il più grave atto di terrorismo verificatosi durante il dopoguerra nel
mondo occidentale: 85 morti, circa 200 feriti. Dopo 40 anni, nonostante gli
sforzi della giustizia, le sentenze definitive, le indagini in corso, permane
la sensazione che ci siano dei misteri irrisolti, come del resto ha sottolineato
anche il presidente Mattarella che – in occasione della ricorrenza – ha
ribadito la necessità di “un impegno straordinario per l’accertamento della
verità”. Mancano tasselli per capire quanto accadde quel sabato mattina?
Giovani e giovanissime erano in gran parte le vittime,
ma ragazzi erano anche coloro che furono identificati come esecutori materiali
della strage. Sembra quasi una “storia di ragazzi” dal volto tragico ed
inquietante..
Circa la metà delle persone colpite aveva meno di
trenta anni, erano giovani, giovanissimi, addirittura bambini. Provenienti da
tutta Italia e di passaggio nel più importante nodo ferroviario, quando alle
10,25 la bomba fece crollare un’ala intera dell’edificio, uccidendo e ferendo.
Aveva appena tre anni Angela Fresu, ma sua madre
Maria, una contadina sarda, ne aveva appena 24. Le sorelle Sonia e Patrizia
Burri, pugliesi, avevano rispettivamente
7 e 18 anni. Roberto Gaiola, uno studente di Vicenza, aveva solo 14 anni.
Invece 26 e 23 anni avevano le sorelle siciliane Domenica e Angelina. E così
via. Bambini, adolescenti, giovani appena affacciatisi alla vita.
Ma emergono anche “storie di ragazzi” sul versante opposto
degli attentatori-terroristi. Secondo le sentenze definitive già pronunciate, a
mettere la bomba furono giovanissimi appartenenti ai Nuclei armati rivoluzionari, un gruppo terroristico neofascista.
Tre i colpevoli individuati come esecutori, e condannati definitivamente:
Valerio Fioravanti, 22 anni all’epoca; Francesca Mambro 21; Luigi Ciavardini,
nemmeno 18, giudicato separatamente dal tribunale minorile.
Era giovane anche un quarto esecutore, individuato
dalla sentenza di primo grado del gennaio scorso in Gilberto Cavallini: aveva
28 anni. Più o meno la stessa età, 27, aveva un altro supposto esecutore
materiale, il neofascista Paolo Bellini, appartenente però ad altro gruppo
dell’eversione nera, Avanguardia
nazionale, sul quale sono in corso indagini.
L’età di questi terroristi-ragazzini fa da
contrappunto a quella dei presunti mandanti, organizzatori, complici a vario
titolo, scoperti con un’indagine conclusasi quest’anno. Potrebbero essere padri
o addirittura nonni. Licio Gelli (classe 1919), l’imprenditore Umberto Ortolani
(1913), il funzionario di polizia Federico Umberto D’Amato (1919), il
parlamentare Mario Tedeschi (1924).
Tutti facenti capo alla Loggia massonica segreta P2, anticomunista e filoatlantica, che
attraverso trame occulte, infiltrazioni nelle istituzioni dello Stato, in piena
guerra fredda Est-Ovest, mirava a contrastare le ambizioni governative del partito
comunista. Il primo avrebbe finanziato gli stragisti neofascisti, gli altri lo
avrebbero aiutato e supportato sul piano politico, istituzionale, parlamentare.
E’ impossibile che il ruolo di questi soggetti possa
essere accertato, la giustizia è arrivata fuori tempo massimo, sono tutti già
morti. Del resto a distanza di oltre 40 anni da quell’esplosione, molto è
cambiato, e persino i primi condannati, Fioravanti e Mambro, sono liberi, dopo
aver scontato la pena (nonostante l’ergastolo).
La ricostruzione degli inquirenti disegna il quadro
di una banda di terroristi ragazzini, appartenenti a ambienti diversi (NAR e Avanguardia nazionale) ma sempre neofascisti, che sarebbero stati
pedine nella mani di sapienti burattinai, gli uomini della P2, interessati a
destabilizzare il paese, impaurirlo attraverso le bombe, a tenerlo sotto
pressione in modo da contrastare il possibile ingresso del PCI nell’area di
governo. Andarono così le cose? Si tratta di una ricostruzione convincente?
E’ singolare che proprio sulla strage di Bologna, per
la quale molto si è fatto, permangano interrogativi. Le prove raccolte sono
state numerose ed hanno superato il vaglio di tanti magistrati ma ciò non ha
impedito che emergessero perplessità. Il tratto più originale di questa strage
è proprio questo.
Nel paese dei delitti senza colpevoli e dei misteri
insoluti, quella di Bologna è una storia
sicuramente ricostruita nei dettagli con l’individuazione di esecutori e
mandanti, inseguendo quel bisogno di verità e giustizia di cui ha parlato il
presidente Mattarella. E tuttavia più che l’esigenza di scrivere questa storia
in altro modo, gli interrogativi sollecitano piuttosto la necessità di fare
luce in maniera più completa.
I dubbi non derivano dal fatto che la responsabilità
è sempre stata negata dai condannati, quanto dalla considerazione che sono
rimasti incerti i legami tra esecutori e mandanti, i quali appartenevano – non
solo per età – ad un altro mondo rispetto a quello dei terroristi “neri”. Un
aspetto che, almeno da parte della giustizia, non è più possibile approfondire
perché non si può indagare sui morti.
La questione dei rapporti esecutori - mandanti rinvia
ad un altro dilemma insoluto, quello del possibile movente dell’azione terroristica
rispetto alle strategie dell’eversione nera e al momento storico che il paese
attraversava. Qui si moltiplicano le piste alternative, dal collegamento con la
strage di Ustica dello stesso 1980 a quello con il terrorismo di matrice
mediorientale. A cosa serviva la bomba? Qual era il disegno perseguito?
Probabilmente è questo il mistero più acuto rimasto oscuro.
E’ necessario forse dare alla strage una profondità,
che solo il momento storico permette di offrire. Non a caso, la domanda
cruciale – a cosa serviva la bomba – rimane senza una risposta appagante. Manca
la chiave di lettura di questo evento. Perché si fa fatica a focalizzare il
significato della strage, a considerarla come punto conclusivo o iniziale di un
periodo storico.
Spesso si è ragionato sui motivi pensando alla “strategia
delle tensione”, come se fosse stato con certezza un fenomeno terroristico
avente il suo inizio con la strage di piazza Fontana, nonostante il fatto che,
almeno per convenzione storiografica, quel periodo si considera concluso nel
1974. Al momento della bomba di Bologna lo scenario internazionale è mutato
rispetto a quello della strategia della tensione, cadono le dittature europee,
il PCI dopo il sequestro Moro non ha possibilità di entrare nel governo.
Ipotizzare una ripresa della strategia della tensione
nel 1980, dopo un intervallo di anni, significa pensare ad un’altra realtà, e a
motivazioni differenti. Non un atto di quella strategia, piuttosto un riflusso
nella vita politica italiana con la crisi del riformismo e del centrosinistra,
e l’incognita determinata da un decennio di lotte sindacali e scioperi pesanti.
Il malessere che si accompagna alla strage non
dipende tanto dalla mancata individuazione degli autori o dalla necessità di
trovare un colpevole in più, quanto dal mistero del movente. Il racconto
accurato del ruolo di esecutori e mandanti porta con sé una sensazione di vuoto,
come se sfuggisse il senso dell’eccidio, il suo significato nella storia del
paese.
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