Il film “L’affido”: una storia familiare di violenza
di Marina Zinzani
La
violenza degli uomini che non si arrendono. Famiglia andata in fumo ma non si
arrendono, i castelli sono crollati, erano di sabbia, polvere, e fango, erano
inadatti a portare il peso di inquietudini e di quotidianità anche avvilenti.
La
violenza degli uomini che non si ferma, è cosa loro la moglie, i figli. La
presunta ricostruzione, perché sono cambiati, dicono che sono cambiati, è
menzogna, perché il male non è estirpato, se si nutre del concetto di possesso. Possedere l’altro, possedere i membri della famiglia, comandare, distruggere.
La propria identità è avere, avere sudditi. Renderli cosa fragile, spenta, che
accetta tutto in silenzio, incapace di pensieri propri: questo è avere, questo
è possesso.
Le
donne, i figli che si ribellano, che cercano di scivolare via, fra dilanianti,
silenziose sofferenze, da questa condizione di lenta morte: è la ricerca
disperata della propria libertà, di un angolo di giardino, quello che potrebbe
essere ancora la loro vita.
Il
tentativo di fuga dalla violenza, dal male, dall’orco, dall’uomo con cui si è
costruito una famiglia che poi si è trasformato un giorno in orco, è un
tentativo che porta una lacerazione indicibile, e tanta paura. Ma la fuga è
l’unica strada per sopravvivere.
Alcune
donne non ce l’hanno fatta e diventano pagine di cronaca nera. Altre donne sì,
anche se il tragitto è stato tutt’altro che facile. In mezzo le violenze di
mani che spesso non erano mani, ma sguardi, voci, insinuazioni, allusioni,
offese, imprecazioni, menzogne, e ognuna di queste cose, anche se durata solo
un momento, ha creato sofferenze
racchiuse, sofferenze che hanno cambiato il carattere, e che peseranno anche
sui figli negli anni a venire.
La
violenza, questo genere di violenza, si nutre di silenzio. E’ vicino a noi, più
di quanto si pensi. E salvarsi la mente e la vita non è facile.
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