Un’offerta di lavoro: l’occasione per chiudere la storia con lui
di Cristina Podestà
Una sera di molti anni fa ero uscita
con Greta. Mentre eravamo sedute a leggere il menù, fingevo di essere indecisa,
e riflettevo. Io e Matteo avevamo una relazione. Nessuno lo sapeva, né tanto
meno avrebbe mai dovuto saperlo Greta.
La mia visione del mondo era strana, le
nostre esistenze si erano toccate, e non avevamo potuto fare a meno uno
dell’altra. Avevo percezione di attimi rubati, segnati da un profondo senso di
irrealtà, quasi che i nostri incontri non si fossero verificati sul serio, che
certe cose non fossero mai accadute.
“Avete scelto?” La voce del
cameriere mi distolse dai miei pensieri. “Io sì” disse Greta. “Anche io” risposi
sorridendo e misi il dito su un nome strano, tanto non avevo fame. Greta mi
aveva chiesto di poter trascorrere una serata con me, perché il suo matrimonio
era in crisi. Greta era la mia amica del cuore, dalla prima elementare avevamo
condiviso tutto. Matteo era arrivato nella sua vita mentre, dieci anni prima,
era in vacanza con la sorella e subito in fretta si erano sposati.
Io avevo gioito della sua scelta,
della sua felicità e avevo conosciuto Matteo poco prima delle nozze. Non mi
aveva neppure entusiasmato ma a Greta non avevo detto nulla. All’epoca mi
trascinavo in una stanca e grigia relazione con Gregorio, ma non mi interessava
cambiare. Ero molto tranquilla anche se non entusiasta della mia vita e
trascorrevo il tempo in varie attività, alcune lavorative altre no. Due anni
più tardi avevo lasciato Gregorio perché il nostro rapporto si era esaurito, ma
eravamo rimasti amici.
Stavo bene da sola, uscivamo ancora
tutti insieme nel nostro vecchio gruppo, compresi Greta e Matteo. Poi, di
colpo, una sera a casa loro, per una battuta, avevo riso e guardato meglio
Matteo. Era seduto su una poltrona, sfogliava un libro, e prendeva da bere su
un tavolino accanto. I nostri sguardi si erano incrociati con una intensità
unica, avevo provato una scarica elettrica sulla pelle.
Ero tornata a casa frastornata. A
letto mi dicevo che era solo suggestione e cercavo di prendere sonno. Ma quella
notte non dormii. Mi alzai distrutta cercando di respirare e feci una doccia
ghiacciata. All’uscita dall’ufficio lo trovai sotto il portico di casa mia.
“Hai da fare stasera? Posso salire? Ho detto a Greta che mi fermo al lavoro
fino a tardi”. Lo feci entrare in casa mia. Da allora i nostri rapporti presero
un ritmo nevrotico, ma regolare. Nessuno aveva mai sospettato di nulla.
Ci incontravamo ancora tra amici e
fingevamo benissimo. Poi lui passava da me, che vivevo nella parte opposta
della città in una casa abbastanza riparata da sguardi indiscreti, alle ore più
strane. E io cercavo continuamente scuse plausibili per passare qualche ora con
lui, che era diventato la mia droga. Prendevo un permesso dal lavoro, inventavo
un malanno, o lo faceva lui. Nessun pentimento, nessun senso di colpa.
Eravamo fatti per stare insieme. Non
avevo chiesto che lasciasse Greta, lui me lo aveva accennato, io subito avevo
rigettato il pensiero. Non potevo fare anche questo a lei. Vivevo una serena
clandestinità, mi accontentavo delle briciole, non avrei potuto rinunciare a
Matteo, ma non chiedevo di più. E quel giorno Greta mi aveva chiamato.
Aveva litigato con Matteo e lui le
aveva sparato in faccia che non la amava più e voleva la separazione. Mi stava
chiedendo un consiglio. Ero seduta di fronte a lei con un piatto davanti di
pesce e frutta. E lei mi raccontava, accalorata e singhiozzante, cose che
conoscevo bene. Pensai freneticamente a quello che avrei potuto o dovuto dire,
ma non mi faceva parlare, voleva sfogarsi lei. Forse, a fine serata, mi avrebbe
chiesto un consiglio.
Ero entrata in un bosco metaforico e
quella sera dovevo in qualche modo uscirne. Non parlai molto, al contrario di
come facevo di solito. Ma lei non se ne accorse. Le dissi qualcosa di banale e
scontato e poi mi riportò a casa. Mi abbracciò sulla porta così stretta che
percepii il suo profumo e il suo corpo magro stretto al mio. Ero un’infame.
Appena a casa, prima che lei
arrivasse alla sua, chiamai Matteo. Lo lasciai liquidandolo con brevi e
ridicole frasi. Non ti ho avvisato prima perché ho voluto essere certa. Non ti
amo più. Ho conosciuto un altro. La settimana prossima mi trasferisco. Lui
balbettava, diceva di non credermi. Avevo avuto un’offerta di lavoro altrove,
ma neanche ci avevo fatto un pensiero. L’indomani avrei parlato col mio capo e
avrei accettato il trasferimento.
Non potevo più sopportare di
guardare in faccia Greta, dopo avere toccato la sua palpabile sofferenza. Lui
avrebbe fatto la sua scelta, forse la avrebbe lasciata ugualmente. Ma non
volevo essere io a entrare in questa decisione. Staccai il telefono quella
sera, cambiai numero e una settimana dopo ero già lontana.
Chiamai Greta con carta prepagata
inventando scuse su scuse, dicendo che mi sarei fatta viva appena possibile. In
strada mi accorsi di stare male da morire. Dopo giorni ascoltavo il mio corpo e
tutte le sofferenze dell’universo si stavano concentrando dentro di me. Passai
dei mesi terribili, in tutti i sensi, poi cominciai piano piano a riassaporare
la vita.
Dopo circa un anno li incrociai.
Cercai di svicolare per non farmi vedere e ce la feci. Con mia grande sorpresa
Greta mostrava visibilmente una gravidanza piuttosto avanzata. Fu un colpo al
cuore, non so se di gioia o di dolore, forse per entrambe le emozioni. Mi
diressi velocemente da tutt’altra parte correndo e solo quando fui sicura di
essere ben distante mi fermai col cuore in gola. Ero addolorata, spaventata,
rattristata ma serena con me stessa e pure orgogliosa.
E proprio quel pomeriggio ritrovai
un po’ di pace, guardando un cielo in cui il vento aveva spazzato via tutte le
nuvole; tutto sommato decisi che, per sopravvivere e fare i conti con me stessa
senza detestarmi più, avevo fatto la scelta migliore per tutti.
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