Il Covid ha rivoluzionato la comunicazione scientifica, esposta ad una visibilità travolgente. Come ne escono scienza e esperti?
(Angelo Perrone) Durante la crisi provocata dal
Covid, gli scienziati hanno avuto un ruolo di primo piano nella comunicazione,
come non era mai accaduto, dando massima visibilità alla scienza.
Il virus,
sconosciuto e devastante, ha posto gli specialisti di ogni settore al centro
dell’interesse internazionale, conferendo alla ricerca la responsabilità di
influenzare le scelte destinate a provocare ricadute nella vita di ciascuno.
Nella carta stampata, l’interesse è transitato
dagli inserti specialistici direttamente alla prima pagina, con servizi,
interviste, commenti. Ogni trasmissione tv ha fatto sfoggio di esperti, chiamando
a raccolta epidemiologi, virologi e quanti altri, per averne informazioni e pareri
su tutto, anche oltre le rispettive competenze.
Sono diventati in breve simili ad oracoli, da
compulsare sulle cose ignote del presente in attesa di ricevere l’agognato
responso, quel suggerimento capace di suggerire la giusta maniera di agire,
senza commettere troppi errori. Qualcosa che aiutasse a decidere, e a stare più
tranquilli dinanzi all’invadenza del Covid. Non ci siamo limitati a seguire i
loro interventi, la loro presenza ci ha tenuti incollati allo schermo nella
speranza per tutto questo tempo.
Gli scienziati non si sono fermati qui, sono
stati tentati anche dai social e li hanno usati a fondo. Non bastavano le enunciazioni
sui media tradizionali. E allora ecco il flusso di altri interventi. Ogni
motivo era buono: approfondire il già detto, chiarire qualche equivoco nato nel
frattempo, magari contrastare le opinioni altrui. Un vortice di parole, un mare
di considerazioni, talora in conflitto, sino allo stordimento.
Nell’incertezza che ha accompagnato l’epidemia, dovuta
all’oscurità dell’insidia e alla contraddittorietà delle indicazioni, ciascuno alla
fine si è scelto uno scienziato di riferimento. Lo hanno fatto i media, e l’ha
fatto anche lo spettatore-lettore.
Ogni testata ha fatto squadra con i suoi
elementi, diventati campioni di ascolti. Abbiamo finito per preferire Tizio
piuttosto che Caio, dare valore ai pronunciamenti dell’uno a scapito delle
argomentazioni di quell’altro. Vuoi mettere? Tizio è stato chiarissimo, bisogna
fare così e così, per combattere il virus.
Era inevitabile, sentendoli mille volte, che
qualcuno ispirasse maggiore fiducia, e si facesse seguire di più. Si sono
formate fazioni (para)scientifiche, per le quali parteggiare. Ogni scienziato si
è conquistato un pacchetto di strenui sostenitori.
In base a scelte di vario
tipo, indifferenti al merito del loro dire stante la comune ignoranza degli
spettatori, come la suggestione delle argomentazioni, il nome degli scienziati.
Magari, la simpatia, la voce, l’aspetto esteriore: hai visto come parla bene quella
tizia? qualcuno avrà pensato riferendosi alla bionda con i riccioli, presenza
fissa su quel canale tv.
Come ne escono gli scienziati da una visibilità così
accentuata, lontana dagli schemi tradizionali? Fuori dalle aule universitarie,
dai congressi, dalle riviste seriose. Soprattutto, viene da domandarsi: la
forte esposizione ha modificato nell’opinione pubblica la percezione della competenza
scientifica, finora traumatizzata da negazionisti, complottisti,
terrapiattisti, no-vax, e via discorrendo?
Non è una novità. La scienza fa bene ad esplorare
nuovi canali di comunicazione spingendosi oltre i modelli ordinari di
documentazione. E’ indispensabile allargare il campo della conoscenza. E poi ci
sono situazioni particolari ed eccezionali, come l’emergenza Covid, in cui è
inevitabile che l’informazione scientifica occupi la ribalta.
Ugualmente
normale è che, in questo contesto di massiccia diffusione delle conoscenze, alcuni
sappiano tenere meglio banco, divulgare le conoscenze con maggiore efficacia,
dialogare con il pubblico in modo anche gradevole. In una parola, risultare più
“visibili”.
Si crea un feeling tra lo spettatore e lo
scienziato, che diventa in breve anche non volendo un personaggio. Il pubblico infatti
osserva, prende nota dei suggerimenti, comincia a seguire quel tale. Si va
oltre i limiti della pura informazione e anche della divulgazione. L’intervento
sui media anche quando proviene da uno scienziato diventa una forma di
esibizione, e persino operazione di marketing. La presenza ben riuscita e
gradevole fa vendere copie di giornale, alimenta l’audience. Si forma nel
pubblico un consenso, cioè un seguito che genera denaro.
L’apparizione di esperti nelle varie tribune
televisive è un fenomeno affatto recente o attuale, è iniziato nella seconda
metà del secolo scorso, prendendo rapidamente piede, così chi ne ha beneficiato
ha acquisito una notorietà superiore a quella dovuta alle attività di
laboratorio. Carl Sagan (1934-96), astronomo, divulgatore, autore di fantascienza,
era una presenza fissa al Johnny Carlson show e ne garantiva, per la sua parte,
il successo.
I meriti del divulgatore, allora, possono
superare quelli dello scienziato? Il modo di apparire più decisivo di quanto
viene detto? Certamente l’esperto deve avere delle capacità proprie. Il
messaggio, se rivolto direttamente al pubblico, non può essere quello consueto
espresso all’interno della comunità di appartenenza. Altro deve essere il linguaggio,
accessibile a tutti, che perciò corre il rischio di una semplificazione
eccessiva.
La pandemia ha mostrato come la comunicazione di
per sé possa giocare un ruolo nella lotta di tutti alla sopravvivenza. Qualcuno,
come Devi Sridhar (1984), studiosa inglese, presidente del Global Public Health e professore all’Università di Edimburgo, si è spinto a dire che “metà della battaglia si combatte con la
comunicazione”. In effetti, la sconfitta del virus, in assenza di vaccini e
terapie certe, dipende dalla prevenzione, e dunque è collegata alla credibilità
degli esperti, al loro potere di persuasione.
In fondo, questa “fiducia” (ammesso che vi sia
affidabilità) è la stessa che sta alla base della ricerca scientifica stessa. Qui
assume la forma dell’affidamento verso gli sforzi di settore, l’operato dei
colleghi, insomma la scienza nella sua dimensione globale. “Avere fiducia” è comunque
indispensabile, tanto per seguire una guida quanto per cercare soluzioni al
dramma della pandemia.
D’altra parte se la visibilità, per la scienza
come per altre attività di rilievo, è inevitabile e positiva, non vi è dubbio
che possa anche diventare un fattore rischioso.
L’urgenza di soddisfare le esigenze
dell’opinione pubblica spinge a diffondere risultati non ancora convalidati
delle ricerche o formulare anticipazioni troppo frettolose.
La sovraesposizione determina una saturazione che
sminuisce il messaggio stesso nonostante la serietà ed importanza. Banalizza il
discorso, toglie credito a chi parla, alla lunga sollecita disaffezione sul
tema. Ne esce danneggiata la reputazione della scienza, come attività capace di
risolvere problemi, oltre che l’immagine dei singoli.
La polifonia delle voci in certi casi va a
scapito del rigore e della chiarezza. Non è solo il caso delle tesi
contrastanti. Quel tale parla a titolo personale o di una istituzione? Fa
riferimento o no a esiti scientificamente affidabili? Che valore quello che sta
dicendo? Il limite che separa i dati validati da quelli ipotetici è talvolta
incerto, non evidente. L’intervistatore, spinto dal desiderio di ricavare
comunque risposte, sospinge il malcapitato nel campo delle previsioni
azzardate. E lui, lo studioso così compassato, non si avvede della trappola, e
sedotto da tanta riverenza si lascia andare.
L’eccesso di visibilità, oltre a questi
inconvenienti, dà spazio alla vanità dei comportamenti, alimenta il
protagonismo, a discapito della misura come metro indispensabile nel confronto
dialettico. Si assiste ad una caduta di stile, una perdita di autorevolezza. La
super visibilità confligge con la qualità scientifica.
Il punto più critico nel rapporto tra scienza e
comunicazione come emerge da tante considerazioni sta alla fine in una
diversità di linguaggi di cui occorrerebbe avere maggiore contezza, proprio
allo scopo di muoversi meglio tra campi così eterogenei. Questa constatazione
non implica nessuno giudizio di valore riguardo alle regole che distinguono il
modo di fare scienza da quello di comunicare. Ma c’è una differenza di
orizzonti che non può essere trascurata, perché ciascun mestiere sia fatto al
meglio e perché il collegamento tra scienza e media funzioni con equilibrio.
Non v’è dubbio che sia diversi i criteri che
contribuiscono a formare la reputazione scientifica rispetto a quelli che
guidano la scelta dei buoni comunicatori. Alla competenza sempre
indispensabile, vanno aggiunti altri fattori specifici, come la padronanza
delle tecniche comunicative, la prontezza nell’affrontare questioni eterogenee,
persino la riconoscibilità individuale sulla base della propria storia umana e
professionale.
Nulla che in assoluto ostacoli la divulgazione della
scienza sui media, o ne pregiudichi il messaggio, abbastanza per riflettere sui
modi e sui tempi: l’urgenza di conoscere e di comunicare comporta maggiori
responsabilità per tutti gli attori dell’informazione e rende evidente la
necessità di preservare il rigore scientifico.
Nessun commento:
Posta un commento