di Marina Zinzani
Ci sono autobiografie che lasciano il segno. Sono scorrevoli, incalzanti, lasciano attoniti nella descrizione di particolari episodi, sono coinvolgenti. E in queste autobiografie si tirano in ballo, quasi per forza, altre persone: familiari, amici, compagni e compagne di relazioni affettive.
Il lettore legge, l’autore stesso si offre nella sua più profonda fragilità, si mette letteralmente a nudo, la sua storia prende forma. Si svelano mondi interessanti, di cui a volte non si immaginava l’esistenza.
Si narra di dolore, di sofferenze patite in silenzio, senza poterle confidare a nessuno, nascoste dietro una maschera di apparente tranquillità. In questo caso l’empatia è scontata, il lettore intuisce di cosa si parli, perché qualcosa, anche solo una briciola della sua narrazione, l’ha vissuta anche lui.
Il raccontarsi di un autore può avere però degli aspetti negativi: quello di essere giudicato, non compreso, oppure può suscitare rabbia, sarcasmo, incredulità, compassione. I commenti sui social possono essere ingiusti, feroci. Ha deposto la sua maschera ed è senza protezione.
L’autore di un’autobiografia non parla solo di sé, consegna inevitabilmente anche gli attori della sua storia al pubblico, li descrive, ricorda episodi lontani, e alla fine anche loro saranno giudicati, definiti, bollati con un giudizio che non andrà più via. Un giudizio superficiale magari. C’è un raccontare episodi privati, intimi. È un racconto che espone queste comparse al mondo, ma loro non possono raccontare la propria versione dei fatti.
Non ci sono solo le autobiografie che tirano in ballo altri. Ci sono le interviste, ad esempio. Ci sono i social che attraverso titoli sintetici danno definizione di una persona, mediante lo svelare una storia che la coinvolge, raccontata da un altro.
L’esposizione può diventare tritacarne per persone che non hanno intenzione di apparire e di essere tirate in ballo. La discrezione appartiene ad un mondo gentile, molto lontano dal nostro.
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