Racconto di Paolo Brondi
Lontano, in un casolare dell’Umbria più riposta, tra
Gubbio e Perugia, una donna piangeva la morte del figlio. Elena, la madre,
scostò la tenda della finestra sul parco e fissò l’ormai completa oscurità. La
nebbia ingrigiva il bianco della neve caduta abbondante e un eco di suoni
leggeri e sfocati giungeva dai rintocchi delle campane di una chiesa.
Non vide altro che i ricordi evocati dal pianto incessante. Era stata appena nominata magistrato, presso il Tribunale di Foligno, quando le giunse notizia che era stata accettata la richiesta di adozione di un bambino, da tempo inoltrata da lei e da suo marito, Luca. Il bambino era un maschietto di appena venti giorni, generato da una giovane di origine sarda, morta per complicazioni post parto e da padre ignoto. Aveva occhi di un profondo azzurro e una fitta e fine capigliatura nera e già ondulata: forse per influenza di tali segni lo chiamarono Marino. Crebbe sano e sereno e affidato, fin dagli anni della scuola elementare, alle cure di un frate francescano, padre Saverio, amico della madre e grande studioso della vita dei Santi. Sotto la sua influenza, non costrittiva ma autorevole e liberale, Marino frequentò assiduamente la Chiesa, divenne chierichetto e maturò un codice d'immagini e parole ieratiche, solenni ed echeggianti un mondo di armonia e di pace. Crescendo e frequentando la scuola media e poi il liceo classico, solo apparentemente dimenticò il contributo della precedente educazione. Alto e atletico partecipò a numerose gare sportive, distinguendosi nelle varie discipline fra cui il karatè. La sua bellezza, unita alla bravura in tutti i campi, lo circondò sempre dell'ammirazione di giovani donne e fino agli anni di università conservò in credito un immenso capitale di affetto e gratitudine.
Non vide altro che i ricordi evocati dal pianto incessante. Era stata appena nominata magistrato, presso il Tribunale di Foligno, quando le giunse notizia che era stata accettata la richiesta di adozione di un bambino, da tempo inoltrata da lei e da suo marito, Luca. Il bambino era un maschietto di appena venti giorni, generato da una giovane di origine sarda, morta per complicazioni post parto e da padre ignoto. Aveva occhi di un profondo azzurro e una fitta e fine capigliatura nera e già ondulata: forse per influenza di tali segni lo chiamarono Marino. Crebbe sano e sereno e affidato, fin dagli anni della scuola elementare, alle cure di un frate francescano, padre Saverio, amico della madre e grande studioso della vita dei Santi. Sotto la sua influenza, non costrittiva ma autorevole e liberale, Marino frequentò assiduamente la Chiesa, divenne chierichetto e maturò un codice d'immagini e parole ieratiche, solenni ed echeggianti un mondo di armonia e di pace. Crescendo e frequentando la scuola media e poi il liceo classico, solo apparentemente dimenticò il contributo della precedente educazione. Alto e atletico partecipò a numerose gare sportive, distinguendosi nelle varie discipline fra cui il karatè. La sua bellezza, unita alla bravura in tutti i campi, lo circondò sempre dell'ammirazione di giovani donne e fino agli anni di università conservò in credito un immenso capitale di affetto e gratitudine.
Nel giorno in cui discusse la sua tesi e si laureò in
scienze politiche con il massimo dei voti, nel 1999, sua madre, primo giudice,
nel tribunale di Perugia, lesse la sentenza di condanna a vita di brigatisti
appartenenti a una frangia delle disciolte BR, responsabili dell’uccisione di
agenti di polizia, carabinieri e magistrati. Fra questi si trovava un uomo di
quarantacinque anni, di origine sarda, che, durante tutto il processo non aveva
mai smesso di fissare intensamente proprio il giudice. Nella sua mente si
avvicendavano le immagini della disperazione del fratello, quando seppe che la
sua donna era morta e il proprio figlio era stato dato in adozione. Una
disperazione che lo portò a rintracciare ogni notizia della famiglia ove suo
figlio cresceva, ma non lo preservò dall’incappare nella giustizia che, per i
suoi reati, lo condannò all’ergastolo. Dopo dieci anni di carcere, divenne
collaboratore di giustizia e fu mandato in un luogo di sicurezza, sulle alture,
oltre Gubbio, nello stesso tempo in cui si celebrava il processo del fratello
più giovane.
Un mese dopo Marino, uscendo dall'università, ove
frequentava il corso di perfezionamento in scienze religiose, non prese la
direzione di casa, ma decise di avviarsi verso il seminario, ove lo attendeva
Saverio, il suo maestro. A un certo punto la strada era in salita e deserta, e
Marino che l'aveva percorsa tante volte, fin da bambino, camminava sicuro,
tanto da non accorgersi di avere alle spalle due individui che, silenziosi e
con estrema rapidità, lo aggredirono mettendogli alla bocca un bavaglio
narcotizzante. Si risvegliò al chiuso di una stanza da cui non si sentiva altro
che scricchiolii tipici di una casa di legno e soffi violenti di vento che
scuotevano i battenti della finestra. Immaginò di essere stato trasportato in
montagna, probabilmente sopra Gubbio, poiché, osservando l'orologio, si rese
conto che erano passate solo circa tre ore da quando il suo cammino verso il
seminario era stato interrotto. Non si perse d'animo, confortato dalle voci
suadenti delle sue preghiere. A un tratto la porta già sprangata si aprì ed
entrò un giovane a viso scoperto, si portò al centro della stanza e, con aria
felice e sorridente, rivolto a Marino disse: "Devi stare tranquillo. Fra
poco ti farò incontrare tuo padre!".
Marino non prestò attenzione a quelle parole, tutto teso
a studiare le mosse del giovane, sicuro che avrebbe potuto sopraffarlo e
liberarsi. Così fece: appena il ragazzotto gli voltò le spalle, per aprire la
porta, mentre già girava la chiave, con un balzo si avvicinò a lui e appena
voltatosi gli sferrò un pugno corto, improvviso, al mento e quello cadde a
terra svenuto. Aprì la porta e si trovò di fronte le scale. Gemevano i gradini,
accompagnando la discesa che cercava di rendere più rapida possibile e insieme
silente. Giunto sul pianerottolo di terra, di là da una porta chiusa udì un
gran numero di voci, dai toni alti e con forte cadenza dialettale, mentre il
giovane atterrato dal pugno si risvegliò e cominciò a gridare. Marino trovò la
porta d'uscita e scappò via. Percorse con estrema rapidità il prato antistante
la casa e s'inoltrò nel bosco. Il chiaroscuro dell'imbrunire rendeva danzante
la sua fuga e la proteggeva, addensando ombre alle spalle e aprendosi in lieve
chiarità sul davanti. Correva ansante e affannato fra l'intrigo dei rami finché
trovò un viottolo cui affidò repentinamente la sua fuga senza sapere dove
l'avrebbe portato. Percorse ancora un centinaio di metri e si trovò di fronte
occhi che lo fissavano con intensa luce gialla: era un cane che,
sorprendentemente né abbaiava né digrignava i denti, ma scodinzolava e si
muoveva piegandosi e uggiolando come volesse farsi seguire. Marino immaginò che
si trattasse di un cane domestico, abituato all'odore dell'uomo, ma "chissà
dove va .. dove mi vuol portare", si diceva " e poi, tutto è strano.
Nessuno mi ha seguito... forse erano sicuri che, disorientato in un bosco
sconosciuto, sarei tornato al punto di partenza e, molto probabilmente, questo
è il loro cane...mi avrà già visto e annusato quando incosciente mi hanno
trascinato in quella stanza e, ora, mi vuol riportare indietro, da loro".
Finse di non assecondare le moine del cane e continuò a camminare sul sentiero,
ma il cane lo seguiva docilmente.
Ad un tratto si aprì una radura nel cui mezzo si ergeva
una grande capanna: il cane prese ad ululare a muso alzato fino a che si aprì
una porta e sulla soglia apparve un uomo; portava un mantello che si moveva al
vento scompigliandogli i capelli bianchi, e la bianca sua barba, e alla vista
del giovane gli si fece incontro e disse: "ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono e tutto è svelato, figlio mio..". Marino,
che si era avvicinato con prudenza e pronto a ritentare la fuga, ascoltò
stupito quelle parole e un improvviso miscuglio, di pensieri lo rese muto.
Associava le parole "nostro padre" a "figlio mio" e temeva
di essere in balia di pazzi. Mentalmente si ripeteva "Che c'entro io con
quella gente? Che cosa vogliono ottenere? Forse farmi diventare facile mediatore
per ottenere un alto riscatto? Il ragazzo prima e ora quest'uomo, sicuramente
un pastore, parlano con abitudinario uso di quelle espressioni...e io non sono
figlio né questo è mio padre! Ma, il pastore continuava a guardarlo dicendo:
"Accomodati nella mia capanna. Stai tranquillo, nessuno ti vuol far del
male. Senti, figlio mio, come aumenta il soffio del vento. E' il mio compagno,
più soffia e più mi riporta le voci di sempre, di una donna, la mia donna, che
aspettava un figlio, mio figlio e che, morendo, mi fece promettere che avrei
cresciuto nostro figlio...poi, la mia voce, le mie urla, quando dovetti darmi
alla macchia e venni a sapere che mio figlio non c'era più ...era stato dato in
adozione...ma ora il vento me lo ha riportato e ti vedo....".
Altre parole furono soffocate dal pianto. Marino,
impietositosi, gli pose una mano sulla spalla cercando di calmarlo e di farlo
ragionare. "Non fate così - gli disse - respirate ... la fede aiuta a
risolvere ogni problema nella luce divina e rende inutili alla mente le
angosciose domande". Insieme entrarono nella capanna. Si affacciò una
grande stanza, il camino acceso, un tavolo lungo e rettangolare, un'ampia madia
su cui erano disposte numerose forme coperte da teli bianchi e nell'aria si
spandeva un buon sapore di legna bruciata e di formaggio. Il pastore invitò il
giovane a sedersi intorno al fuoco, gli offrì formaggio e vino e continuò a
parlare". Quando le sofferenze sono grandi e la vita appare in tutta la
sua spietata miseria, irraggiungibile è la luce della fede o la speranza in un
mondo migliore. la miseria mi è apparsa sempre in ogni momento e ha intristito
i miei giorni". E Marino: "ma è l'anima che ci suggerisce la via con
la sua guida che ha del divino". "Non l'anima, non la fede - disse il
pastore - ma la vita risponde alla vita ..ho sentito di non cader più in un
abisso senza fine quando il corso del mio sentimento ha trovato infine una
pietra per arrestarne la foga, epicentro di ogni mio desiderio...donare amore e
umanità...ritrovare un figlio..".
Un bussare violento irrigidì il clima che tra i due, a
poco a poco si era rasserenato. Marino dalla pietà era passato alla
comprensione di quell'uomo posseduto dalla dolorosa inquietudine di
un'esistenza senza consolazione che non fosse il miraggio o l'ansia di
ritrovare il figlio perduto. "Aprite... polizia !". Il pastore aprì e
il commissario, insieme a due agenti, entrò, prendendo subito in consegna
Marino e ordinando al vecchio di seguirli in stato di fermo. La polizia era
stata allertata del giudice, madre preoccupata per il mancato ritorno del
figlio all'ora rituale e dopo aver visto vane le sue ricerche nei luoghi di
abituale frequenza del giovane. Da sempre temeva le ritorsioni da parte delle
persone da lei condannate o dei loro parenti e da ultimo ricordava il processo
in cui era stato condannato un sardo il cui fratello era collaboratore di
giustizia, posto sotto la sua vigilanza, e confinato sulle alture di Gubbio.
Marino ritornò a casa e seppe infine la verità: non era stato rapito per vendetta
o per ottenere un riscatto, ma per fargli incontrare e conoscere suo padre
naturale. Lo testimoniarono il figlio del fratello del pastore e quest'ultimo,
il cui racconto commosse tutti gli inquirenti e lo stesso giudice. Marino
accolse la verità della sua nascita e la sorte dei genitori naturali ben
lontano dal nutrire delusione, come gli fosse inferta una ferita, una
lacerazione interiore, la rottura di strutture sedimentate in ogni fibra,
sfaldamento di piani e, piuttosto, con uno straordinario incremento di amore,
verso l'unica famiglia che lo ha cresciuto, educato e fatto uomo, ma anche
verso i genitori naturali sentiti vicini per la loro tragica infelicità e amati
come creature di Dio.
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