Racconto
di Paolo Brondi
Le
mie parole, in questo pomeriggio d’estate, aleggiano nella stanza e rimangono
svuotate dalla calura della stagione che si arrocca a strati presso il
soffitto, vanamente cacciata dal ventilatore Ruini. Il riccioluto, boccoleggiante,
studente liceale che mi sta appresso suda copiosamente sotto le ascelle e in
fronte, nel cercare di afferrare le parole in fuga, ma non riesce e rimane lì,
accanto a me, intontito dallo sforzo, con gli occhi acquosi e vani. Non
capisce, o forse sì, ma quando tenta di rispondere alle mie domande, non
ricorda più come si articola la regola della perifrastica passiva.
Fuori
la natura è ebbra di tanto azzurro e le cicale invano fanno a gara con il
rullio dei clip-clap, i miagolii dei jukebox e la babele dei dialetti
morbidamente espressi da frotte di ragazze annerite, svestite e ammiccanti
facili voluttà. Altro che perifrastica attiva o passiva, non biasimo il mio
studente se non le impara, anzi lo invidio. E’ arrivato al mare con la madre,
calato dalla città industriosa e satura di tante opportunità, con tanti
riccioli, ampio pallore in viso e numerose materie da riparare a settembre. La
madre, graziosa, giovanile e con timido sorriso, me lo raccomanda con parole
accorate: “Mio figlio, Nicola, è molto intelligente. Ma, poverino, durante
l’anno scolastico è stato ammalato e poi forse i professori lo hanno malvisto
..sa com’è, per via dei suoi capelli un po’ lunghi, me l’hanno preso per
contestatore e così lo hanno rimandato e gli hanno rovinato l’estate… Ma lo
dovranno promuovere, eh sì, perché sa, in fondo, a pensarci bene, non si
meritava di avere tante materie… Certo se gli insegnanti non avessero fatto
tutti quegli scioperi, se avessero insegnato meglio e lo avessero capito,
sarebbe stato promosso, lui che è tanto intelligente…”.
Non
commento la sua valutazione delle cose, ma le offro un bicchiere di acqua
fresca. Lo accetta sorpresa, lo beve in un fiato e mi guarda. Forse mi vede
solo ora e i suoi occhi parlano diverso dalle parole di prima e hanno la luce
di un’età ancora aperta alle gioie della vita e che tutte le promette. Mi
chiede se sono sposato. Dico no, non ancora. ”Fortunato lei-soggiunge-io mi
sono sposata a 18 anni e mi sono trovata subito con un figlio, questo figlio…
ma che fatica crescerlo e reggere la vita di coppia”!
Ascolto
con disagio lo sfogo della donna che ora è in silenzio e mi guarda con una
strana intensità, quasi in attesa di una mia consolazione, magari quella stessa
che tante mogli in vacanza cercano nei maschi versiliesi, oppure impersonando
la Vittoria di Antonioni (L’eclisse, 1962) che, parimenti in pena per il peso
del vivere, cerca intorno quel calore e quella passione di cui si sente
svuotata. E mi dico che è naturale che una giovane donna senta il bisogno di
alleggerire il suo esistere in un’espansione e una ricchezza che può donarsi
anche per me.
Illusione!
Lei riprende a parlare e dice. “so che è anche psicologo ed io avrei proprio
bisogno di una buona terapia…possiamo metterci d’accordo sull’orario, oppure me
lo dice per telefono, mi chiamo Silvia..?”. L’eros che ha fatto capolino nello
studio torna a volare in alto e sublimato è ora il rapporto: al figlio lezioni
intense e produttive; alla madre un soccorso… solo terapeutico! Riprendo le
lezioni per il figlio e insisto sulla perifrastica passiva e sul modo di
tradurla. Invito il ragazzo a tradurre una frase-verifica di quanto appreso,
mentre intorno l’esercito dei clip-clap conduce la sua assurda guerra al
silenzio in un mondo di rumori, ma il risultato è un disastro: l’illogicità è
diffusa. La sua capacità di concentrazione è evanescente, come il vento che lo
accompagna e fugge via quando arriva a lezione con la sua nuovissima moto Honda
125cc: recente regalo del padre che tanto ama il suo figliolo da spiacergli di
vederlo caracollare a piedi su un proletario marciapiede. E certo non è
estranea al suo diffuso torpore una brunetta tutta pepe con la quale egli
consuma sigarette e notturni spazi, profumati di mare e colmi di virginei
sospiri .
Ma
forse c’è di più. Gli chiedo infine ragione di tanto sfasamento e le parole
diventano un fiume. Mi propone un quadro chiaro e logico del suo stato di
persona profondamente infelice e perennemente annoiata. La sua vita è piena di
“troppo”: troppo amato, dai genitori, dalle ragazze…troppo denaro in tasca,
troppo divertimento… e vacanze, e lezioni. Ed ha il complesso del padre: di
quel suo padre che, venuto su dalla gavetta, da muratore a impresario, a grande
proprietario di immobili, gli dà noia, lo fa sentire inferiore e perfino un imbecille…Vorrebbe
andarsene via per vivere la vera vita che, a suo dire, è quella dei terroristi,
misteriose creature che, secondo lui, hanno il fascino di fecondare il reale,
con il terrore e la morte, di fermenti salutari, ben più veri di quelli offerti
da un ordinato progresso.
E’
un farneticar il suo, comune a tanti giovani, apparentemente indifferenti di
fronte al cerchio della morte e sadicamente affascinati dalle tante bombe ove è
rimasto ucciso un gran numero di persone . Mi paiono testimoni inconsapevoli
del vuoto di coscienza che li spinge ad aderire acriticamente ai movimenti
responsabili di tante morti. Voglio sperare che le sue siano solo parole che
influenzano altre parole, non la vita e, terminata l’ora di lezione, lo
congedo.
L’azzurro
di fuori si è un poco appannato. Esco e raggiungo a passi nervosi il parco non
lontano. Poso lo sguardo sulle tonalità diverse delle foglie e mi rassereno.
Ora, la brezza, portata dal mare, mormora lieve tra i rami e m’invita alla
quiete su una provvida panchina, ma continuo a pensare, con enorme pena, ai
tanti morti e alla rovinosa piaga che del terrorismo ha infettando la storia
della civiltà. “Prof. prof.. meno male che l’ho trovata”, sento esclamare.. ed
è proprio lei, Silvia, la madre di Nicola e senza esitazione si siede accanto a
me. Quegli occhi dalla luce intensa, gli occhi di una donna bella e misteriosa,
sono ancora su di me. Ora li abbassa e mi chiede di ascoltarla attentamente.
“Nicola
non è figlio mio, ma di mio marito. Lo ha avuto dalla sua prima moglie e dopo
un anno dalla sua morte, sposandomi, mi ha chiesto di fargli da madre. Ho
accettato con l’ingenuità della mia età e nel clima di felicità per le nozze,
ma per una madre che non è madre non sempre è stato facile sopportare quel
figlio ed ora non ne posso più“. Sembra sincera nello sfogo, accompagnato da un
lieve rossore nel volto, occhi lucidi e vemenza di parola. Vorrei rasserenarla
ma non è quello il luogo adatto. La invito a calmarsi e ci avviamo insieme
verso un caffè. Camminiamo eguagliando i passi e lasciando voce al silenzio fra
noi. Entriamo nel bar e ci sediamo in un angolo riposto. Ordino due caffè
macchiati in tazza grande, mentre lei si guarda intorno, non so se per ammirare
il locale che è uno dei più belli di Forte dei Marmi, o per timore di essere
vista da qualcuno.
Riprende
a parlare e, quasi in confessione, mi dice di essere un tipo molto complicato:
“ Oscillo tra amore della regolarità, delle radici, delle abitudini che mi
danno certezza e sicurezza e slanci e scelte che tendo immediatamente a
smorzare, smarrita nell’immaginazione degli affetti. Vivo e mi guardo vivere,
mi osservo con gli occhi degli altri e mi faccio schifo per queste
romanticherie post nietzschiane che suscitano la mia più corrosiva ironia ma
che mi appartengono. Sono molto possessiva ed esclusivista e m’irrita fino a
mandarmi in crisi derogare per prima a questa condizione, riservandomi spazi
per fantasie sentimentali ideologiche quando non tollero nelle persone che amo
evasioni anche solo immaginarie. E, oggi, mi sento bloccata, con un pensiero
fisso: scappa, fuggi, dileguati, non farti più sentire!”.
Come prevedevo, non è l’essere matrigna di quel figlio
incompreso che la rende così agitata. Avrebbe bisogno di essere aiutata a dialogare con la bambina che è dentro
di lei, quel piccolo essere arrabbiato e dolorante, che piange perché si sente
solo e incompreso…. e, d’impeto, le dico “io mi prenderò cura di te….”. Non so
in che modo possa prendermi cura di lei, sposata ad un marito più anziano e con
un figlio ormai insopportabile, ma mi sono impegnato e lo farò. Lei stessa
rafforza il mio intento, con quel suo monologare: “ Ultimamente
mi sento “strana”, come se mi stessi distaccando anche da una parte di me.
Vorrei riempire il domani di cose piacevoli. L’impegno familiare è così
totalizzante…. Occupa tutto il tempo…”. “Ti capisco- le dico- la vita, infatti, ci impone di
ricomporre i fili rotti e il nostro mestiere non è quello dell’ago e del filo,
ma di rendere sinergico il rapporto fra affettività e razionalità, fra pancia e
cervello...così da recuperare la giusta misura per qualsiasi progetto di
conoscenza e autoconoscenza...E ’ bene riprendere in mano la propria vita, ma
con humour e sempre pronti, creativamente, alle sorprese e ai colpi inopinati
ed inattesi...”. Mi guarda con aria commossa e uscendo dal caffè… mi sfiora la
mano.. Mi sforzo di non farci caso, ma è come se un’ala di farfalla mi
addolcisse il cuore. “ Giulio.. accompagnami ancora- mi sussurra - andiamo fino
sulla spiaggia?”.
La sua voce è tenera e flautata. La prendo
sottobraccio e, mentre le ombre calano e fiabesca appare l’illuminazione del
litorale, c’incamminiamo. L’aria è profumata e il mare mormora il canto
dell’imbrunire. Invisibile è la traccia che lascia il movimento del tramonto
rincorso dall’incessante,
chiassoso, volo dei gabbiani e Silvia mi si avvicina sempre più e mi porge le
labbra. La bacio e un profumo di rose si sente d’intorno. L’oscurità si fa più
ampia e cresce l’intensità dei nostri baci . Leggera è la sua veste e tutte le forme sono godibili. La spiaggia, che ora è
tutta deserta, accoglie morbida e calda la nostra passione. Facciamo l’amore e,
più in là, una musica suona “…sapore di sale… sapore di mare…”.
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