di Marina Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia
(ap)
La pioggia che cade sulle acque placide di un lago, che si intravede appena
oltre il vetro appannato di una finestra, o che scende in una torbida e
inquieta notte d’autunno.
La pioggia tra mille rumori metallici, nella frenesia del tempo sempre troppo corto per tutto, oppure nel mezzo dei silenzi che avvolgono l’animo impaurito. La pioggia come scenario quieto e rassicurante, o invece angoscioso e terrificante quando giunge a spezzare la continuità di una giornata o la regolarità di una vita. Metafora ultima di gioie, dolori, di interrogativi mai risolti. La pioggia può essere un esile filo che annoda misteriosamente la trama di alcuni racconti.
La pioggia tra mille rumori metallici, nella frenesia del tempo sempre troppo corto per tutto, oppure nel mezzo dei silenzi che avvolgono l’animo impaurito. La pioggia come scenario quieto e rassicurante, o invece angoscioso e terrificante quando giunge a spezzare la continuità di una giornata o la regolarità di una vita. Metafora ultima di gioie, dolori, di interrogativi mai risolti. La pioggia può essere un esile filo che annoda misteriosamente la trama di alcuni racconti.
Non c’era tempo per
parlare, neanche per dire alcune parole. Non c’era tempo per dire che lui
voleva andare a vivere con i nonni nella loro casa in Toscana, un casolare dove
c’era un cane e una gatta. C’erano anche delle galline, e la nonna raccoglieva
ogni giorno le uova. Poi ci faceva una bella frittata, anche lo zabaione, con
le uova. A volte aggiungeva un po’ di marsala, ma ci stava attenta, perché ai
bambini non andava bene il marsala.
Era un bambino, Andrea,
e la casa dei nonni era sempre il luogo preferito dalla sua mente quando nella
sua camera risuonavano l’eco di urla, di porte sbattute, di parole orrende.
Ormai era certo: i suoi genitori si sarebbero separati. Era da mesi che li
sentiva litigare, non si riusciva a stare mai in pace per qualche ora. Oppure
c’era il silenzio, un silenzio pesante, colpevole, angoscioso. Chissà da dove
erano cominciati, quel silenzio e quelle urla, quella rabbia che si respirava
in casa.
Aveva sentito sua madre
parlare di una donna, l’aveva sentita parlare con sua sorella, e la zia Pina
aveva fatto commenti, neanche a voce tanto bassa: “Cosa volevi, te l’avevo
detto che non era normale che fosse sempre fuori, che venisse a casa così
tardi…”
C’erano dei compagni di
scuola che avevano i genitori separati. Era una distinzione, un’etichetta. “I
miei genitori sono separati”, sì, ora era frequente, nessuno ci faceva più
tanto caso, però significava dire essere diversi, significava intravedere nello
sguardo della maestra qualcosa fra la delicatezza, la sorpresa, il cercare di
prestare più attenzione, chissà. Era un atteggiamento diverso che si leggeva
negli occhi degli altri, una forma di pietà, anche. Figlio di separati. Per
tutta la vita avrebbe dovuto dirlo. Sarebbe accaduto così anche a lui, così nei
prossimi anni, così davanti ai compagni. Avrebbe dovuto dire: “Arriva mio
padre, oggi dormo da lui.”
Dalla sua camera, dalla
porta semiaperta, Andrea aveva visto la madre imprecare, dire parole brutte,
“maledetto”, “adesso te la farò pagare”, “mica finisce qui”.
Il cavallino di plastica
dalla lunga criniera bionda sembrava guardarlo, essergli vicino. Il cavallino
cominciò a parlare e gli ricordò che c’era la casa della nonna, là nel Chianti,
e la sua cameretta sempre pronta.
La nonna che lo prendeva
con sé, quando era ora di fare la spesa al mercato. Sarebbero andati prima
dalla signora della panetteria, quella che gli dava dei cantucci che a lui
piacevano tanto, glieli regalava sempre, la signora, e poi sarebbero andati a
prendere il latte, quello buono, mica quello dei supermercati, e poi avrebbero
pensato al pranzo, la nonna che voleva fare i pici con il sugo, quello con un
po’ di pancetta era buono, e si faceva aiutare da lui, gli chiedeva se bastava
il sale, gli chiedeva di preparare la tavola, di scegliere il vino, quello
rosso andava bene. Poi sarebbe arrivato il nonno, a mezzogiorno, e il
pomeriggio l’avrebbe trascorso con lui, a camminare per i campi, a guardare gli
alberi da cui sarebbe nata l’uva, e il nonno gli avrebbe spiegato come si
faceva il vino, che bisognava imbottigliarlo e lo si metteva in cantina, e poi
lo avrebbero bevuto, perché piaceva a tutti il suo vino.
Il cavallino parlava, con i suoi occhi buoni, e
gli mostrava la sua bicicletta nella casa dei nonni, quella con cui andava per
i sentieri e nelle stradine, certo, doveva stare attento, la nonna era sempre
preoccupata quando lui girava per la strada. E poi la sera sarebbe andato a
giocare a bocce con il nonno, e lì avrebbe rivisto Giacomo, il nipote
dell’amico del nonno, e loro due si sarebbero appartati, e si sarebbero
raccontati della scuola, dei loro compiti, delle loro case.
Il cavallino riuscì a farlo sorridere mentre gli
mostrava il cinema all’aperto della sera d’estate, lui che ci andava con i
nonni, la nonna con una giacca sulla spalla perché la sera faceva fresco. Tutte
le patatine che loro gli compravano, se lo sapeva la mamma! I nonni trovavano
da discutere su questo, ma che importava, alla fine gliele compravano, e che
buone erano, mangiate lì, al cinema sotto la luna.
E poi la mattina si sarebbe svegliato, no, non
c’era la sveglia, c’era il canto del gallo che era regolare, preciso, non si
dimenticava mai il gallo di cantare la mattina e allora svegliava tutti.
Avrebbe sentito i rumori consueti dei nonni, l’acqua che scorreva, un tegame
che sbatteva, e avrebbe avvertito l’odore della focaccia che la nonna, non si
sa a che ora, aveva preparato e messo nel forno.
Andrea accarezzò la criniera bionda del
cavallino. Lo prese in mano e andò alla finestra. Pioveva, pioveva dalla
mattina. Continuò ad accarezzarlo. Ce l’avrebbero fatta, insieme.
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