di
Bianca Mannu
(Introduzione di Angelo Perrone)
(ap) Una ennesima recensione su "Pastorale americana", il
romanzo più famoso del maggior autore contemporaneo americano? Non proprio.
Piuttosto, una riflessione che certamente investe la struttura narrativa
dell’opera, la costruzione dei personaggi, le tesi sottese all’opera, ma che poi
si estende ad altro. Come il carattere stesso della società americana del ‘900.
E che giunge a mettere in discussione la capacità degli scrittori, non solo
Roth, d’esserne interpreti attendibili rispetto alle ragioni della loro
complessità, a partire dalle più vistose contraddizioni.
Il lavoro di Philip Roth, a dispetto
dei propositi, degli intendimenti, e persino dei riconoscimenti della critica
politica e letteraria, non sembra, scorrendone le pagine, all’altezza di
quest’ambizione, osserva Bianca Mannu: troppo impegnativa od eccentrica
rispetto alle conoscenze dell’autore, alla sua capacità di porsi davvero al
centro dei sommovimenti sociali, di riuscire ad intenderli tutti. Non sarebbe
riuscito l’intento di dare voce a tutta la varietà delle componenti sociali:
sia a coloro che sono riusciti ad emergere nella competizione sia a tutti gli
altri, travolti dai mille ingranaggi di un mondo selettivo. In una parola, per
dirla con Primo Levi, “i sommersi”, non solo “i salvati”.
Un punto di vista crudo, dissacrante,
persino impietoso, forse dettato da una predominante prospettiva
ideologica-politica assunta ad esclusiva chiave di lettura non solo del mondo
americano ma anche dell’opera letteraria, nonostante la ricerca, nel testo, di
continue decisive dimostrazioni.
Il titolo del romanzo, misterioso e
seducente, probabilmente rivela il proposito di elaborare un affresco della
società americana contemporanea e quasi di cantarne l’elegia, attraverso il
racconto della sua memoria. Trasfigurazione moderna del componimento dei
conflitti tra la natura e l’uomo, l’America come situazione idilliaca di
un’armonia ai tempi d’oggi.
Se questo era il disegno
dell’autore, sul modello di altra celebre “pastorale”, quella di Beethoven,
l’impianto narrativo assunto a dimostrazione di quel disegno ideale sarebbe
troppo privato e inadeguato. Non solo perché i personaggi rientrano in un
ambito di eccessiva familiarità, ma per un motivo ben più rilevante,
l’estraneità di essi o almeno di alcuni, alle maggiori dinamiche spesso conflittuali
della società americana, tanto da non poter essere specchio fedele di un mondo
così complicato e complesso.
I sentieri percorsi dall’autrice per
formulare una critica tanto radicale al testo, e di rimando a quella società,
hanno comunque il merito di non fermarsi alle apparenze, di voler scavare a
fondo in un’opera per evidenziarne gli eventuali limiti, oltre il visibile. Ed
è per questo sempre benvenuta ed apprezzabile la sensibilità che colga
qualsiasi “aria di chiuso”, ciò che non siamo riusciti a percepire nella realtà
che ci circonda, ciò che alla fine ci manca per dar conto di noi stessi e degli
uomini che vediamo muoversi, affannosamente, sulla scena della vita.
Prima
ancora di giungere alla fatidica pagina 435 - intanto che leggevo le 400 precedenti
e attratta mi lasciavo bagnare (ma senza restarne travolta) dalle cateratte
verbali che l’autore, con assoluta fede nelle capacità rappresentative e
seduttrici della sua prosa, sciorinava davanti alla mia immaginazione -
m’interrogavo appunto sul senso di “pastorale” in quanto sostantivo reggente
l’aggettivo “americana”. Sul secondo termine c’è ben poco da ponzare: non può
che riferirsi agli USA, in quanto rappresentante emblematico dell’intero
continente e dello schema di mondo a cui tutti, e specialmente noi europei, ci
siamo adeguati, e col quale raffiguriamo noi stessi credendoci, perciò,
migliori.
Invece
il sostantivo “pastorale” mi incalzava verso un senso per nulla nuovo, benché
all’apparenza proveniente da oltre Atlantico. Subito la mia pur titubante
memoria faceva affiorare le mie sbiadite informazioni sulle Bucoliche
virgiliane, sulle suggestioni campestri e pastorali di Petrarca e giù
discorrendo fino all’Arcadia e alla vena naturalistica di Leopardi e dopo
ancora fino alle “non pastorali” opere della grande narrativa europea, per
esempio I Buddenbrook e America, onirico controcanto,
quest’ultima, sul “nuovo mondo”.
Ma
durante la lettura, più forte d’ogni altro riferimento, s’è affacciata alla mia
mente “La Pastorale” di Beethoven, già antifona della prima grande lacerazione
uomo/natura in Europa (dovuta alla prima rivoluzione industriale). La Pastorale
beethoveniana rappresenta l’auspicata ricongiunzione dell’umano con la natura
di cui è parte. In realtà quel ricongiungimento non ripristina affatto quello
primigenio: l’uomo in generale è divenuto un’astrazione rispetto alle sue
contrastanti funzioni sociali e la natura è stata variamente alterata in
funzione dei destini produttivi. Il possibile ricongiungimento avviene tramite
la mediazione dell’arte e della cultura, cioè la natura in scala ridotta
rientra nella categoria estetica e l’umano che si congiunge e si rispecchia in
lei è l’artista e il suo committente, cioè la classe padronale colta del primo
‘800.
Ed
è l’intermediazione dell’arte, tra la vita della specie e ciò che si designa
come natura, che irretisce suggerendo che anche Roth abbia probabilmente cercato
di immaginare le possibili condizioni per prefigurare una nuova giuntura tra la
natura e l’uomo. Ma stavolta l’articolazione si presenta più che mai complessa.
Nella
Pastorale di Beethoven resta invisibile l’oscenità infernale del mondo della
produzione senza apparente nocumento per la sintesi estetica, mentre Roth non
può farlo con la stessa “facilità” e buona coscienza. E non solo perché Roth è
di circa centocinquant’anni più giovane, ma perché con lo sviluppo del grande
capitale le categorie della natura e quelle dell’umano si sono pluralizzate, ed
è difficilissimo articolarle: la meccanica produttiva capitalistica ha reso la
natura indisponibile per la fruizione estetica generalizzata e il lavoratore
collettivo per un verso risulta deprivato della sensibilità estetica non
finalizzata alla produzione, per altro verso la sua sensibilità compressa nello
stato grezzo viene catturata in direzione di una bassa estetica, perché questa
è incentivo a consumare merci che recano profitto al produttore e non affinano
il gusto e la mente del loro consumatore. Inoltre il produttore stesso, o
meglio, colui che diventa padrone di un’industria che si vale di lavoro
salariato, non si preoccupa delle sorti della natura ed è, talora per le sue
origini umili, incolto, come il romanziere racconta di Lou Levov con dovizia di
particolari. Il dogma di costui, emblematico, concerne l’incremento dei
profitti e la progressiva espansione del capitale. Nel suo pensiero la natura
compare in forma di risorse da sfruttare fino alla devastazione, e non cambia
di molto se la natura si presenta come acque, suolo, animali, umani.
Lou
Levov, per esempio, disloca una produzione a causa della procurata estinzione
della specie di criceti che fornivano la pelle da guanto; lui stesso è motore e
strumento delle sue fabbriche. Analogamente suo figlio Seymour, è diviso tra
college e duro apprendistato in conceria. Quest’ultimo, da adulto, ricco
magnate, appare certo più raffinato rispetto al padre (la frequenza del
college, i successi sportivi, la scelta degli amici, i luoghi in cui vivere, le
cose di cui circondarsi). La sua soggezione al padre appare quasi come un
destino che nello stesso tempo riveli una natura antropologicamente elevata in
germe, la quale, realizzandosi, tocchi il culmine con il diverso rapporto
educativo nei riguardi della figlia.
Ma
la dialettica, compressa e ignorata dal lato sociale, poi sembra generare “mostri”
familiari: questo, un possibile assunto dell’opera che però resta implicito,
come un che di rimosso che l’autore non riesce a gestire compiutamente. Ecco
perché, restando nell’ambito di una sintesi elementare, Roth non può
raccontarci una Pastorale credibile, magari mitica, ma lo spettro desiderato di
una pastorale il cui respiro si fa presto rantolo. Sempre che il lettore
benpensante non voglia restringere il termine pastorale alla semplice "rimpatriata degli ex liceali" (per dirla all’italiana) dove si rivela un
dramma eminentemente familiare che non avrà né rimpatriata né memorial day, ma si proporrà con
batticuore e silenzio tombale.
Roth
non è scrittore che giustifichi una simile banalizzazione. Il lessema
“pastorale” visto in relazione con le dinamiche suscitate dai meandri e
divagazioni narrative del testo, richiama un senso e una significazione ben più
ampi, che sembrano guardare “oltre” il momento individualistico della vicenda
centrale, per riferirsi a tratti costanti delle società umane fin dal loro
sorgere. Pur descrivendo le notevoli particolarità spazio-temporali d’un grande
paese, gli USA, sembra a me che l’autore voglia mirare al destino umano globale
- alle difficili congiunture della convivenza e ai complicati rapporti con una
natura depauperata e ferita dall’esosa polluzione di prodotti/merce – aguzzando
l’occhio e l’onda di un’arte, quella narrativa, capace di farsi interprete di
un’istanza collettiva, magari vaga, ma carica di nuovo possibile senso.
Forte
del mio vagheggiamento sul presunto ecumenismo di Roth aggiungo un’altra
ipotesi: che chiamare pastorale
questo ambizioso intreccio narrativo fosse il segno di una petizione dell’autore
al mondo: l’aver costruito un’opera così impegnativa, così densa e collegata al
cuore, alla mente e alle viscere della cultura dell’Occidente, da entrare a
buon diritto nell’Olimpo della narrativa classica mondiale, come un solenne
affresco che vede protagonista la più grande potenza mondiale esistente.
Dunque
l’attenzione del lettore accoglie con una certa impazienza lo sfondo
incipitario, caotico e ostico: una sequela di passaggi sul gioco sportivo su
cui sottilizza con tecnicismi da esperto, beandosi e insistendovi come un
tifoso autentico, quale forse è stato da buon americano. Ma a mano a mano che
dalla tela esce scontornata qualche figura, ecco l’espandersi ulteriore, quasi
ossessivo, del più immediato milieu
del protagonista, già baciato, lui così limpido, così alla mano, dalla gloria e
dal successo: già una star con tutta la scia!
Procedendo
nella lettura ci si addentra nel più perfetto labirinto costruttivo del romanzo
contemporaneo: nessuna concessione alla cronologia univoca, intreccio
variopinto delle divagazioni mnemoniche dei personaggi e dell’autore, minuziosa
costruzione di sfondi necessari alla caratura psicologica dei personaggi, immissione
di effetti di baldanzosa ridondanza unita a una misura discorsiva scorrevole ed
elastica con tratti di efficace e vivace secchezza espressiva, onde scansare
l’effetto marmoreo di alcuni tratti psicologici dei protagonisti. Aleggia però,
tra una divagazione e un ritorno al cuore del racconto, la tentazione
razionalistica, con una forte propensione alla tautologia: siamo divenuti ciò
che siamo sempre stati fin dall’origine. Coloro che non possono esibire simili
titoli sono ciarpame: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa.” Tutto va bene
nel romanzo, se si tiene al guinzaglio la tesi preconcetta, ma sotto traccia. E
inoltre devi spiegare con sapienza rappresentativa e plausibile l’eccezione.
Tutto sotto controllo, pare; la parola scorre.
Eppure
la messa in moto di una tale circolazione sanguigna non sempre sortisce
l’atteso effetto. Perché? Perché manca il vero volano, quello dialettico, cioè
la funzione dinamica giocata dall’elemento oppositivo, dotato di logica e
necessità proprie, ma in commisurazione con l’altro. Invece tutto ciò che
l’Autore involve per animare gli esordi e gli sviluppi della vicenda centrale
resta nell’ambito notorio del clan studentesco. Anche le notazioni autocritiche
dei personaggi sono icasticamente presenti come un’accentuazione del narcisismo
familistico, in cui tutto si tiene.
Per
fortuna, proprio in un contesto apparentemente così rassicurante, Roth, da vero
maestro, inventa il più bel colpo di scena di tutto il libro: Seymour Levov è
morto, comunica seccamente Jerry a Skip (affettuoso nomignolo di Roth nel
romanzo). E quasi non hai tempo per prenderne atto ed essere consapevole che
tutto ciò che Roth sta scrivendo sarà il grande monumento alla memoria, non
tanto dei Levov e di sé, quanto di una classe imprenditoriale numinosamente
personificata in Seymour, lo Svedese. Infatti lo Scrittore batte a più riprese
sul tasto che se un mondo, creativo, volitivo, regolato, produttivo e persino
virtuoso e candido, è esistito ed è forse ancora possibile, sono i Seymour, i
Lou, le Dawn ad avere la palma come coraggiosi creatori di progresso, di
benessere e resistenza.
Caratteri
a parte – alcuni sgorbiati in pietra, quasi megalitici – sei sempre nel clan,
sei in famiglia. Nonostante la freschezza dei bozzetti, malgrado
l’effervescenza e l’arditezza dei dialoghi, avverti aria di chiuso. Senti che
c’è un dietro che né il pensiero né la penna ha sfiorato o sfiorerà. C’è un
qualcosa che hai calpestato senza conoscerlo, e tu, scrittore, non ti sei domandato
da che cosa dipende l’inciampo a varcare quel chiuso.
Ecco
un passo sintomatico di una fra le elusioni dissimulate nel pieno della
narrazione: Jerry dice a Skip di Seymour: è il lavoro, la “sua attrazione
fatale”. Il lavoro! Il lavoro che rende bruti e lascia povere intere
popolazioni? Anche questo, il non significato, l’eluso. Il lavoro diventa su Seymour,
sul padre Lou, su Dawn, su Jerry stesso in primo luogo, emblema, fregio luminoso.
Ecco un’ingiustizia teoretica trasformarsi in dato meritorio. Roth è
meritocratico, ma non spiega l’eziologia del presunto merito, se non
restringendo lo sguardo alla sfera essenzialmente privata, élitaria, presso la
quale ciò che invece merita specificazioni, il lavoro sociale alienato,
mercificato e spesso imbarbarito, resta velato dietro una nobilitante vaghezza
ed è sottilmente connesso con l’obiettivo personale raggiunto sopra altri:
denaro, autostima, potere.
Ecco
che i protagonisti di questa storia, malgrado aggressività, leggerezza e
sostanziale cinismo, sono da sempre e per sempre “i salvati”. Dei “sommersi”
Roth non ha minima contezza che si tratti di umani. L’umano illumina un tratto
di qualche fedelissimo dipendente come prova provata della magnanimità
padronale. Solo quando Meredhit (Merry) condivide l’orrenda esistenza dei
vinti, dei sommersi, allora Roth suscita nella mente di Seymour la moltitudine
dei senza volto come liquame, i cui miasmi minacciano di appestare i buoni come
lui. Il negativo resta tale nell’origine e nell’esito.
Questa
la tabe sulla resa artistica di “Pastorale americana”. Infatti l’insistente autoreferenzialità e la sostanziale
chiusura ideologica e sociale dei protagonisti contrae la vicenda in dramma di
dimensioni pressoché private. L’occhio dello scrittore continua a muoversi in
prossimità dei protagonisti, senza indagare sulle diverse dinamiche sociali
sulle quali avrebbe dovuto puntare l’occhio, magari asciutto, ma libero dalla
glassa autoreferenziale e veritiero. Invece reso ipovedente dal proprio amore
per l’ingenua aggressività originaria della classe di riferimento, lo scrittore
non riesce a mettere a fuoco i nessi tra la storia dei Levov, simboli di
un’intera classe di magnati molto rampanti, con gli operai statunitensi bianchi
e neri e ancora meno, malgrado l’evocata dimensione transnazionale dei loro
interessi, mettere in chiaro la connessione tra il citato gonfiore dei loro
portafogli e i molti problemi del terzo e quarto mondo dove facevano affari,
disinteressandosi o intervenendo aggressivamente sulle risorse e sulle vite di
quelle popolazioni .
In
sintesi, manca nel grande arazzo di Roth la coscienza dell’immane
responsabilità da ascrivere alle classi di potere americano. Ne soffre assai il
respiro ecumenico che il libro sembra in apparenza alitare. Nonostante ciò, con
l’ambiguità del suo titolo e del suo racconto, pare continui a covare la ben
nota autocandidatura imperiale e pastorale basata sulla superiorità attivistica
e finanziaria dei magnati USA: arrogarsi dalla cima d’un Olimpo o Parnaso giornalistico
e letterario, il compito di sancire, oltre la reale funzione egemonica già in
atto, anche il primato dell’arte narrativa dal punto di vista metropolitano,
nella sua funzione didascalica e storico mitologica; come per Roma antica
l’Eneide. Dunque come fu Pax augustea a sanzione del dominio romano sul mondo
antico, ora, e presumibilmente in futuro, pace ed egemonia yankee nel mondo
globale.
Tutto
bene, allora? Certo che no, perché quella stessa potente borghesia,
rappresentata dai Levov del romanzo, vive soggettivamente sotto scacco nel
romanzo stesso e oggettivamente nella realtà sensibile, senza rendersene conto
e ragione. Lo strappo superficiale, il botto che interrompe una sorta di
idillio familiare e familistico, lascia intravedere una ferita più profonda che
riguarda un intero paese e non può essere addebitata a una semplice e non
investigata delinquenza di massa. Sì, perché quando un romanziere di grande
levatura e ambizione elabora un suo materiale mnestico e storico, finisce per
significare più di quanto voglia il suo stesso desiderio e meno del suo ben
pensare: tradimento della nostalgia e dell’affetto miope!
Lo
scacco diventa dramma personale nel racconto, e non in seguito al fatto che
l’uso dei guanti vada in obsolescenza, o perché i “criceti USA per guanti” sono
stati estinti dalla formidabile macchina imprenditoriale e commerciale dei
Levov qualunque. Ma in quanto la ricca classe imprenditoriale sembra generare
il negativo come emergenza autoctona, subita come abnorme fatalità, derivante
da un inspiegabile disagio personale che esorbita i limiti consentiti dal
contesto rassicurante.
Invece
il dramma, non avvertito né riconosciuto, viene da un fuori non considerato,
perciò incontrollato e incontrollabile con gli strumenti del desiderio o
dell’autostima di classe.
Il
fatto reale trascurato dall’autore è che il giocattolo economico-politico del
così detto sviluppo, del così detto progresso (non si sa bene per chi e per che
cosa) è stato azionato “con altri mezzi” (Clausewitz). O meglio, partito con le
dette buone intenzioni espansive, si è inceppato in una periferia, quella
indocinese dove gli USA sono subentrati ai francesi, e sta procurando molti
fastidi, dato che i nordvietnamiti non demordono di lottare per l’unità del
loro paese e non sono interessati ai titoli di borsa, né si arrendono alla
prepotenza ben armata.
Ma
il bubbone è esploso qui, nella madrepatria, nella mitica Newark, metafora
dell’intero paese, dove Seymour mantiene il punto circa la sua fabbrica; però
tutto intorno è pressoché guerra civile. Hai voglia, caro grande scrittore, di
guardare più vicino ai tuoi piedi o ai piedi di un Levov, di un nonno Lou che
parlando con la nipote Merry sacramenta contro questo o quel politico, come se
lui fosse vissuto su Marte o potesse, quanto un pidocchio nell’ascella del
cane, fermare l’apparecchio impazzito, e Seymour fosse un qualunque giudice
della sua contea che assista neutrale a una discussione astratta tra nonno e nipote
balbuziente.
Merry
fa parte del bubbone esploso; esploso vicino al cuore di mamma e papà. Merry
sta a significare, per gli ottusi, che, poniamo, uno scontato movimento
cominciato, che so?, a Newark, come un vento anodino di disagio e di sofferenze
disconosciute o represse, raggiunge la parte opposta del globo, forma un occhio
di richiamo per altrettanti disagi mortiferi e ritorna come tempesta che non
vede muri, non valuta buone intenzioni e se ne infischia delle genealogie dei
magnati, come delle vite faticose delle genti qualunque, dovunque. Roth sembra
insensibile a questi collegamenti soprastanti o sottostanti alle dinamiche
delle società umane. In questo senso è lecito parlare di fallimento della presa
artistica del suo racconto, come del senso epifanico creduto veicolato dal
termine “pastorale”.
Di
esso l’Autore scrive brevemente alla p. 435,
dopo uno stucchevole amarcord della trattativa di Dawn con Lou circa la
spartizione dei rispettivi rituali religiosi (ebraico e cristiano)
sull’eventuale figlio/a, che ora aveva già preso l’identità di Merry, bombarola
e assassina. La pastorale americana consiste nel momento fugace della festa del
Ringraziamento della durata di un giorno, allorché tutti mangiano lo stesso
immenso tacchino, rendono volutamente omaggio all’istituzione suprema che si
eleva incrollabile sopra ogni conflitto: il governo federale dell’Unione.
Insomma si ripete, istituzionalizzata, un’epifania di pace limitata e
puntiforme.
E qui ancora una
volta è evidente la distopia visiva di Roth che si limita testardamente a
considerare solo la discriminante religiosa tra ebrei e cristiani, come se
tutta l’America del Nord non conoscesse altre specificità umane religiose o
razziali, cozzando col fatto che almeno una macroscopica questione razziale
c’era e c’è tuttora, quella con gli ex schiavi neri e quella non meno lacerante
dei pochi nativi sopravvissuti alle stragi e confinati nelle riserve: cioè le
classi o porzioni di classi che nel mondo contemporaneo si trovano
oggettivamente contrapposte alla fame privatistica della borghesia imprenditoriale
e finanziaria nella lotta per l’esistenza.
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