Ricordo di Gioacchino Natoli *
Paolo Borsellino amava la vita, i suoi cari, i suoi amici di sempre e
quelle "battute fulminanti" che gli nascevano all'improvviso e gli
facevano arricciare il naso, in maniera affatto particolare, quando rideva con
gli altri dei suoi stessi motti di spirito.
In altri termini, amava le "piccole grandi cose" quotidiane di ogni persona comune e, soprattutto, quelle che ancora caratterizzano i suoi tanto apprezzati concittadini dei rioni popolari, pur conoscendone - meglio di chiunque - i molteplici difetti, avendo trascorso l'infanzia - come Giovanni Falcone - nello storico quartiere della Kalsa.
In altri termini, amava le "piccole grandi cose" quotidiane di ogni persona comune e, soprattutto, quelle che ancora caratterizzano i suoi tanto apprezzati concittadini dei rioni popolari, pur conoscendone - meglio di chiunque - i molteplici difetti, avendo trascorso l'infanzia - come Giovanni Falcone - nello storico quartiere della Kalsa.
Come magistrato aveva, da sempre, una "etica del dovere"
straordinaria e non comune, che lo aveva portato, dopo le prime energie professionali
profuse nel diritto civile, ad impegnarsi tanto nell'attività giudiziaria
penale, in specie dopo l'uccisione del Cap. Emanuele Basile, da lui conosciuto
ai tempi della Pretura di Monreale.
Questa visione etica della vita e del lavoro è ben rinvenibile nelle sue
ultime parole, tratte da un'intervista televisiva rilasciata a Lamberto Sposini
poco prima della strage di via D'Amelio: "credo ancora profondamente nel
lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che
lo facciano tanti altri assieme a me. E so, anche, che tutti noi abbiamo il
dovere morale di continuarlo a fare, senza lasciarci condizionare dalla
certezza che tutto questo può costarci caro».
Un'altra frase, divenuta ormai celebre, egli la pronunciò nella sera del 25
giugno 1992, a un mese dalla tragica morte del suo fraterno amico Giovanni, di
Francesca Morvillo e dei valorosi uomini della scorta.
Essa si attaglia appieno anche a Lui, disegnandone la statura umana e spiegandone
l'agire quotidiano: "la sua vita è stata un atto d'amore verso questa
città, verso questa terra che lo ha generato. Perché, se l'amore è soprattutto
ed essenzialmente dare, per lui amare Palermo e la sua gente ha avuto ed ha il
significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare
delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore
questa città e la Patria a cui essa appartiene. Sono morti tutti per noi, per
gli ingiusti: abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo,
continuando la loro opera".
Pur non volendo affatto diventare eroe, martire o icona mediatica, furono
queste ragioni di amore per la collettività che lo spinsero, oggettivamente, a
diventare - suo malgrado - eroe e martire solo per avere adempiuto alla
sua funzione di giudice ed ottemperato alla spinta, intima e sentita, di
operare per il bene comune.
Egli è divenuto, così, un personaggio pubblico carismatico, un punto di
riferimento per la comunità nazionale, un mito moderno, dando anima e corpo ad
una sorta di nuova religiosità civile, che tanto ricorda quella "retorica
del martirio" tipica del nostro Risorgimento.
In tal modo Paolo Borsellino - al pari di Giovanni Falcone - è divenuto,
altresì, un mirabile momento di collegamento con gli altri eroi del
Risorgimento e della Resistenza, entrando nel Pantheon dei nuovi patrioti della
Costituzione, per i cui valori ha speso la vita nella testimonianza della sua
costante lealtà verso l'Italia.
* Il ricordo è stato scritto da Gioacchino Natoli, Presidente del
Tribunale di Marsala, e pubblicato il 17/7/13 sul sito http://www.associazionemagistrati.it.
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