Racconto di Marina Zinzani
Ti tengo la mano. Sono qui, piccola mia, chissà se
puoi sentirmi. Non lasciarmi, non lasciarci. Devi farcela, la mamma è vicino a
te. Ho perso la cognizione del tempo. Da quando sono qui? E’ sera, mi hanno svegliata
alle quattro del mattino e da allora sono entrata in questo film dell’orrore.
Tuo padre non ha perso la testa, ha parlato con i medici, dice che ci sono speranze, che tante persone si risvegliano dal coma nelle tue condizioni. Lui spera, è forte e razionale. Mi hanno fatta entrare in questa stanza, mettere queste cose verdi ai piedi, e poi il camice e la cuffia. Deve essere tutto asettico, non devo metterti in pericolo. Ti guardo: il tuo volto è pallido, mi fa quasi paura. C’è un silenzio irreale.
Tuo padre non ha perso la testa, ha parlato con i medici, dice che ci sono speranze, che tante persone si risvegliano dal coma nelle tue condizioni. Lui spera, è forte e razionale. Mi hanno fatta entrare in questa stanza, mettere queste cose verdi ai piedi, e poi il camice e la cuffia. Deve essere tutto asettico, non devo metterti in pericolo. Ti guardo: il tuo volto è pallido, mi fa quasi paura. C’è un silenzio irreale.
Non mangio niente da ieri sera. Tuo padre mi esorta
ad andare a casa qualche ora, a stendermi, resterà lui qui. Ti lascio con lui,
ci vediamo fra poche ore. Vado per farlo contento, ma non ho né sonno né fame.
Esco, la sera è già calata. Davanti all’ospedale passano delle ragazzine. Sono
vestite come te, potrebbero essere tue amiche, jeans, ballerine ai piedi,
magliette attillate, foulard colorati. Mi stupisco di loro. Si parlano e
ridono, sono vive nei loro corpi integri e armoniosi. Tu sei lì, in una stanza
di rianimazione, dopo che ti hanno aperto la testa. Non ho voglia di tornare a
casa, passo davanti ad una chiesa e mi fermo. Mi siedo, davanti a me c’è una
croce con un uomo, è quello che tanti cercano nei momenti di disperazione. Mi
accascio sulla panchina, mi prendo la faccia nelle mani. Dio, aiutami.
La sera è fresca. E’ domenica, i ragazzi vanno nei
pub, nei locali alla moda, si ritrovano e parlano fra di loro, in genere sono
coetanei.
Suona il telefono, è mia madre. Non ho voglia di
parlarle, sa già tutto, tuo padre l’ha informata.
“E allora?” mi chiede.
“Niente, ancora niente.”
“E quello là come sta?”
“Ha solo una gamba rotta, non si è fatto altro.”
“E’ vero quello che ha detto Davide? Aveva bevuto,
sembra che fosse sotto l’effetto della cocaina… Ma cosa c’entra la nostra
Angela con un uomo così? Di quarant’anni, poi!”
“Non lo so, mamma, non lo so.”
“Dovresti saperlo, sei sua madre… Tua figlia ha solo
diciotto anni e non sai neanche con chi esce… “
Chiudo la telefonata. Mi aspettavi al varco, mamma,
non ti risparmi neanche questa volta. Dovevi ricordarmi anche adesso come la
pensi, che i tuoi tempi erano migliori, che una donna stava al suo posto, che
una ragazzina di diciotto anni non si schiantava alle tre di notte nella
macchina guidata da uno che poteva essere suo padre, che aveva bevuto e che si
era drogato. Che ne sai tu, mamma, dei giovani di oggi che fanno fatica a
parlarti, che vanno a ballare a mezzanotte perché così fanno tutti? Devi solo
aspettare a casa e pregare perché nessuno ti telefoni nel cuore della notte.
Il tuo non capire mai le cose viene fuori anche
adesso, mamma, perfino in questo momento. Vuoi sapere. Pensi che io non abbia
seguito le mie figlie, anzi, che non abbia seguito Angela, perché Lucia non ha
mai dato pensieri, vero mamma. Quella l’hai seguita bene tu.
Dormo poche ore, mi alzo e mi lavo alla meglio.
Ingurgito un po’ di latte, ma ho lo stomaco chiuso, le ossa a pezzi. Torno all’ospedale
per dare il cambio a tuo padre. E’ lunedì, le strade sono piene di auto, tanti
entrano nel metro, salgono sui tram. Corrono, sanno dove andare, perché è una
mattinata di lavoro come tante. Anch’io sarei dovuta andare a lavorare, ma
invece entro qui, in questo ospedale schifoso, in questa stanza dopo avere
indossato questo camice e tutto il resto. Tuo padre va a casa. Lucia è andata
dalla nonna, non voglio farla venire qui.
Mi aspetta un’altra giornata con te, piccola mia.
Come un tempo. Eravamo da sole, io e te, in casa. Papà andava a lavorare, rientrava
la sera, e tu gli correvi incontro. Aveva sempre qualcosa per la sua
principessa, così ti chiamava e ti portava spesso un giocattolo o una bambola,
tu lo abbracciavi forte e dicevi: “E’ bellissima, papà”.
Facevo la pasta e tu, accanto a me, mi imitavi, ne
volevi una parte a cui davi tante forme strane. Quando cucinavo la mia, mettevo
nell’acqua anche la tua e la sera le mangiavamo entrambi. Poi tuo padre diceva
che la tua era più buona della mia. Ti sporcavi le manine di farina, la faccina
diventava mezza bianca e salivi con le ginocchia sulla sedia per potere lavorare
la pasta sul tavolo. Eri piccola, non ci arrivavi ancora bene, da seduta. Eri
bellissima.
Anche quando cucivo, ti davo un pezzetto di stoffa e
tu passavi il pomeriggio a inventarti vestiti per le bambole. Ci parlavi, con
le bambole, facevi i vestiti da sera e da giorno, guardavi le mie riviste e
volevi imitare quei vestiti. Eri una bambina buona, che stava ore senza farsi
sentire, persa nelle sue cose e nel suo mondo. Parlavi da sola e io ascoltavo e
scuotevo la testa divertita.
Dopo cinque anni nacque Lucia. Ti avevo spiegato che
dentro la mia pancia c’era una sorellina con cui avresti giocato, che avresti
dovuto aiutarmi nell’accudirla. Volevo farti sentire importante, sapevo che il
primo figlio può essere un po’ geloso quando arriva un fratellino e non volevo
fare questo errore.
All’inizio, quando nacque Lucia, eravamo complici.
“Hai visto, Angela – ti dicevo – che begli occhi ha
Lucia, però i tuoi sono più belli. Anche il naso… è più carino il tuo” ti
dicevo. Tu mi sorridevi, guardando quella cosa strana che ti appariva la tua
sorellina. Non so cosa accadde poi, forse niente. Non lavoravo allora e portavo
te e tua sorella al parco, di pomeriggio. Tu giocavi con le altre bambine, io
ti guardavo, tenendo Lucia in braccio.
Cominciai a lavorare. Attraverso alcune conoscenze,
andai da un commercialista, e visto che ero portata, diventai presto importante
in quello studio. Mi affidarono un buon incarico, il problema era che le ore da
lavorare, dapprima poche come era stato concordato, con il tempo diventarono
sempre di più, e io non riuscii a dire di no e a cambiare lavoro.
Tu andavi all’asilo, e per il resto una mano la dava
mia madre. Un giorno la nonna regalò a Lucia un piccolo pianoforte e le insegnò
qualche nota. Anche tu ti avvicinasti per vedere, ma chissà perché tua nonna
era più concentrata su tua sorella, era a lei che voleva insegnare. Mia madre
aveva studiato pianoforte per molti anni, si era diplomata al conservatorio e
aveva vissuto con rammarico il fatto di non avere intrapreso una vera carriera,
sposandosi. Solo qualche concerto saltuario qua e là.
Non era riuscita a trasmettermi l’amore per la
musica. Più che altro, stare ore davanti al pianoforte a fare gli esercizi non
faceva per me. Con Lucia aveva trovato la sua erede. Credette di riconoscerne
talento e grazia. Veniva il pomeriggio e le dava lezioni e anche se era
piccola, avevo capito che effettivamente era portata.
Non capii cosa c’era dietro certi tuoi comportamenti
che cominciarono da allora: tu che passavi quando Lucia suonava e battevi
qualche tasto sul pianoforte per rovinarle un brano; la nonna ti rimproverava e
rimproverava me per non tenerti di là in cucina, a fare i compiti. Aveva
progetti su Lucia, parlava di scuole e di maestri che conosceva, facevo fatica
a seguirla nei suoi entusiasmi. Diventasti dispettosa. A volte nascondevi le
cose di tua sorella e quando lei si disperava per trovarle, tu facevi finta di
niente. Le trovavo in mezzo alle tue cose e me la prendevo con te, a volte
urlavo non capendo i tuoi dispetti.
Il lavoro nel frattempo mi prendeva sempre di più e
ne facevo una parte anche a casa. Ero diventata il braccio destro del
commercialista e lo stipendio era anche aumentato. Facevo però sempre più
fatica a seguire tutto. Anche tuo padre si fermava ad ascoltare tua sorella al
piano e la guardava convinto. Mia madre aveva trovato nel genero un alleato nei
suoi progetti.
L’infermiera arriva, controlla delle macchine, io la
guardo, vorrei che mi dicesse qualcosa, ma è impassibile, asettica come questa
stanza. Guardo la tua testa fasciata, ti ricresceranno i capelli, piccola.
A dodici anni ti facesti un pezzo di capelli biondi,
una ciocca bionda sui capelli neri. Litigammo tre giorni. Avevi fatto tutto dalla
tua amica Laura, sua madre aveva lasciato fare, così mi arrabbiai anche con
lei. Stavi bene a casa di quest’amica, volevi andare sempre da lei a fare i
compiti, non la invitavi quasi mai a casa. Qualche volta l’avevi fatto, forse
non era un caso che avevi smesso di invitarla dal giorno in cui lei aveva fatto
i complimenti a Lucia che suonava. Tua sorella si era messa a parlare con lei
di un pezzo, mi ricordo di una tua battuta insofferente: “Bene, ora possiamo
andare a studiare”.
Non era colpa di tua sorella se aveva talento, era
una cosa naturale, forse l’aveva ereditato dalla nonna.
Cosa c’entrava lei, poi? D’accordo, era anche brava
a scuola, aveva il massimo dei voti pur studiando pianoforte tutti i giorni. E’
che tutto le veniva facile, in ogni cosa.
A quindici anni parlasti di passare qualche giorno
fuori, in vacanza con Laura. Come al solito sua madre era accondiscendente,
aveva una vita sentimentale che definivo confusa, un ex marito, un figlio avuto
da un altro uomo, relazioni di cui avevo perso il conto. Pensavo che
frequentare quella casa ti avesse influenzato negativamente. Di fatto non volli
e tu mi tenesti il muso per una settimana.
Arrivavo a casa stanca la sera, allora lavoravo
tutto il giorno fino a tardi e tu stavi nella tua stanza a fare i compiti, a
guardare Internet e a sentire la musica alta. Disturbavi Lucia e credo che lo
facessi apposta, o perlomeno non te ne importava. A tavola, la sera, tuo padre
e io parlavamo della giornata di lavoro, delle bollette che erano arrivate,
della salute della nonna. C’entra qualcosa tutto questo? Quelle comunicazioni
fredde, di fronte a una tivù che mostra orrore e paure che incombono, quasi da
farci sentire in colpa di mangiare insieme attorno a un tavolo la sera: c’entra
qualcosa questo?
Tu parlavi pochissimo con noi, solo rare
comunicazioni sui soldi, le ricariche del cellulare, vestiti che dovevi
comprare. Non andavi bene a scuola, tuo padre ti aveva fatto una bella
ramanzina e tu avevi alzato le spalle ed eri uscita di casa. Sapevo che l’adolescenza
era un periodo difficile, ci voleva tempo. Anche pazienza. Ma le cose non
migliorarono. Ti trovai la ricetta di un anticoncezionale in borsa, frugai fra
le tue cose dopo una lite e la sensazione di non capirti più. Non sapevo se
affrontare il problema, avevi solo sedici anni, e già eri andata da un
ginecologo da sola, avevi fatto tutto tu, come se io non esistessi.
La mia natura apparentemente calma mi tenne a bada
solo tre ore, poi scoppiai. Ti parlai della delusione che avevo provato, non ti
avevo visto mai con un ragazzo fisso, solo amici e amiche che ti venivano a
prendere sotto casa. Era a uno di questi ragazzi che ti eri concessa, e con
quanta facilità?
Non ricordo bene cosa dicesti, mi aggredisti alzando
la voce, dandomi dell’antiquata e di quella fuori dal tempo. Provai a dirti che
certe cose sono belle quando ci sono i sentimenti, che una ragazza non si può
buttare nelle braccia del primo venuto. Perlomeno che mi potevi fare conoscere
il tuo ragazzo.
Tu mi rispondesti:“Quale?”. Io me ne andai dalla tua
camera, non avevo più parole. Eri stata male allora a dirmi questo, era davvero
questo che volevi dirmi? Aiutami a capire adesso, perchè forse non ci sarà più
tempo, mi hanno detto di considerare anche questa ipotesi. Aiutami, Angela.
Aiutami a capire dove ho sbagliato. Quello che non ti ho dato.
I dottori sono attorno a te, si parlano, uno
scuote la testa. Quello a cui ha parlato tuo padre ha detto che il tuo corpo
non reagisce come dovrebbe. Gli ha spiegato che spesso gli stimoli, come la
voce di qualcuno o la sua musica preferita, aiutano a risvegliarsi, ci sono dei
casi così.
E’ una buona idea, tuo padre mi ha detto che
dobbiamo fare subito qualcosa, si può portare qui un CD con la tua musica,
avrai un cantante preferito, un gruppo, che so. Io l’ho guardato. Poi ho
guardato per terra. Mi vergogno. Non so niente. Non so niente della musica che
ti piace, dovrei guardare nella tua stanza ma non mi hai mai detto niente.
Dovrei dirlo al medico: “Non so che musica ama mia figlia”; lui mi guarderebbe e
direbbe: “Capisco”.
Capisco. Cosa dovrebbe capire. Che ho lavorato,
che mi trovavo mucchi di panni da stirare e da fare la spesa il sabato e che la
domenica dovevo fare da mangiare per la settimana, perché poi il lunedì si
correva, correvo, accidenti. Che ne so qual è la musica che ama mia figlia?
Faceva appena fatica a parlarmi.
Poi, arrivò lui. Avevi solo diciassette anni.
Capivo che era successo qualcosa, ti vedevo diversa, più assente del solito.
Non ti facevi venire più a prendere da nessuno dei tuoi amici, uscivi e basta.
Una volta ti seguii dal balcone. Girasti l’angolo di strada e salisti su una
macchina. Io e tuo padre non avremmo mai potuto permetterci una macchina così.
Ne seppi di più, le voci giravano. Aveva quarant’anni, una moglie da cui viveva
separato e un figlio, un lavoro poco chiaro, sembrava fosse socio in una
discoteca. E un mare di soldi. Cambiava macchina ogni sei mesi. Venimmo allo
scontro totale con te, io e tuo padre. Eri minorenne e i sussurri su questo
tipo non erano dei migliori. Cosa ci trovavi in uno che poteva essere tuo
padre?
La nonna veniva, avvertiva l’aria di tensione in
casa e si rinchiudeva nello studio con tua sorella, preparavano un concorso di
pianoforte ed era convinta che potesse farcela. Ti vestivi male, eri
trasandata, ti facesti anche un tatuaggio sul polso. Era la moda, io e tuo
padre non capivamo niente, ci dicevi. Quando arrivasti con il pearcing sulla
lingua, poi, le urla si sentirono fino al piano di sopra. Da un anno ti vedevo
uscire con lui, ti veniva a prendere sotto casa e ora non avevi più neanche
paura delle nostre sfuriate.
Mi fanno uscire. Vedo i dottori che parlano,
scuotono la testa. Non ce la faccio a stare qui, mi svesto di questa roba verde
e mi incammino verso il bar. Mi tremano le gambe. Il corridoio è interminabile.
Si sente il rumore delle tazze, del caffè pungente, sono tutti vitali. Medici
che parlano, la barista che raccoglie le ordinazioni. Ordino un cappuccino e me
lo porto in una mensola davanti al muro. Mi passo il dorso della mano sugli
occhi bagnati, non c’è nessuno che possa aiutarmi. Angela, ti prego.
Quando torno nella stanza, l’infermiera a cui
chiedo qualcosa non mi dice niente, è fredda, professionale. Il lavoro. Lo
schifoso lavoro. Se ti avessi seguito di più piuttosto che perdermi la sera in
dichiarazioni fiscali che mi portavo a casa, che mi occupavano anche il sabato
mattina… Se potessi tornare indietro e capire cosa ci fosse che non andava. Ora
saresti con un’amica, un ragazzo normale, non saresti mai salita su quella
maledetta macchina.
Ma può essere accaduto tutto per la gelosia
verso Lucia, perché pensavi che preferissimo lei? D’accordo, tua sorella non ha
mai dato problemi, d’accordo che la nonna stravedeva per lei e te neanche ti
guardava. Giusto una cosa formale, lo so com’è mia madre. Basta questo per
spiegare il tuo cambiamento? Dimmelo, ti prego. Ti tengo la mano. Questo
tatuaggio. Abbiamo perso dei giorni che potevano essere di serenità dietro una
sciocchezza del genere.
Walter. Era l’amico di papà. Veniva spesso a
casa nostra, andava in garage dove papà aveva i suoi attrezzi e stavano lì per
ore, dietro le loro cose. A volte si fermava a mangiare da noi. Era un bell’uomo
allora, alto, magro, con la battuta sempre pronta. Scherzava su ogni cosa. Poi
si è visto meno, ha divorziato, la moglie lo ha lasciato e non si è capito bene
perché. Ce l’ho davanti agli occhi, quella scena. Io arrivo a casa e non c’è
nessuno. Dopo un po’ sento il rumore di una macchina, siete voi due, scendete.
Tu sei a testa bassa, e vai dritto in casa senza guardarmi… lui parla… ti ha
dato un passaggio fino a casa… lui continua a parlare… Chiudo gli occhi. Rivedo
il tuo volto senza espressione che guarda a terra. Non c’eri più tu, in quel
volto. Avevi dodici anni.
La storia della ciocca di capelli bionda nacque
dopo, me lo ricordo. Dimagristi, qualche volta ti sentivo in bagno a vomitare.
Eri sempre da Laura o chiusa nella tua stanza. Avevi mal di stomaco per un
nonnulla.
Walter… Era sempre gentile, sempre pronto ad
aiutarci, aveva prestato anche dei soldi a tuo padre una volta. Io non dissi
niente quel giorno. Cosa dovevo dire... Cosa era successo… Non mi ero chiesta
niente. Cominciasti a essere critica con noi. Eri polemica su cose che diceva
tuo padre a tavola, non ti piaceva il cibo che cucinavo. Eri insofferente verso
tua sorella, che subiva i tuoi malumori senza replicare. Mangiavi a fatica.
Perché penso a queste cose? Da quella volta
della macchina, quando Walter si fermava a mangiare da noi, tu dicevi che
dovevi studiare o che dovevi andare da Laura, forse non hai mai mangiato a
tavola con noi quando c’era lui… Forse una volta. Avevi mal di stomaco,
dicesti, e ti andasti a stendere… E io dov’ero? Cosa pensavo io? Che razza di
madre sono stata io che non mi sono accorta… Dio mio fa che non sia vero… Non è
vero, non è vero niente… Quella volta che tuo padre ti rimproverò perché eri
tornata tardi, dava la colpa ai tuoi amici e tu gli urlasti: “Begli amici che
hai tu, invece!” Perché non ti ho chiesto cosa significava quella frase, cosa
volevi dire?
Mi prende un gran sonno, all’improvviso. Mi
appoggio sul tuo letto e forse mi addormento. Faccio un sogno. Siamo io e te in
un prato. Che strano, hai il corpo di una ragazzina, avrai dodici, tredici
anni. Mi vieni incontro e hai fra le mani una margherita. Io sono seduta su
questo prato e mi sento strana. C’è un bel cielo azzurro, il prato è verde, di
un verde diverso, più forte. Anche la margherita che hai è più grande di una
margherita normale, ha la dimensione di un girasole eppure è solo una
margherita.
Vorrei parlare, ma non esce la voce. Faccio uno
sforzo, ma non ce la faccio. Tu sembri capire quello che voglio dire, mi prendi
la mano. Capisci che ho capito. Allora riesce a uscire dalle mie labbra questa
parola terribile, assurda, colpevole: scusa.
Non so quanto tempo mi sono assopita. Mezz’ora,
pochi minuti? Due medici ti stanno attorno, non so cosa succede. Mi invitano a
uscire. Ci siamo. Mi appoggio al muro, comincio a pregare. Dio, aiutami. Poi, l’infermiera
viene verso di me.
“Venga” dice prendendomi la mano. Sorride.
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