Daphne (1932), di F. Casorati |
Nell’aria fresca e con gli occhi chiusi, i
pensieri sono “come rondini”, più leggeri e felici. Un quadro di F. Casorati, Daphne (1932)
Poesia
di Marina
Zinzani
(Commento
di Angelo Perrone)
Respiro e aria fresca
i miei pensieri vanno
come rondini per la
campagna
come rondini sono leggeri
fammi respirare l'aria
piena di promesse
mi sembra piena di promesse
e oggi tutto il mondo
mi sembra lieto
non voglio svegliarmi
da questo momento
chiudo gli occhi
respiro,
respiro, respiro.
(ap) La londinese Daphne Maugham non era solo
l’allieva curiosa ed intelligente del maestro, poi diventata sua moglie, ma lei
stessa una pittrice di rara finezza ed intelligenza. Felice Casorati ne
apprezzava la vivacità intellettuale, i molteplici interessi tra danza,
coreografia e infine pittura che l’avevano portata in Italia; ammirava la gioia
con la quale usava i pennelli, quel sentimento semplice capace di trasfigurare
i piccoli paesaggi che creava.
La coppia, durante i primi anni trenta, scelse
il piccolo comune di Pavarolo sulle colline torinesi come luogo di soggiorno
nel periodo estivo. Trovò una vecchia costruzione, una “casetta bianca”, che
mantenne nel tempo le caratteristiche originarie di abitazione rustica tanto
che non perse mai “l’odore di fieno e di stalla”.
L’arrivo e la presenza di Daphne animarono silenziosamente
la casa, nella quale fu ricavato lo studio del pittore, con un’ampia vista
sulle colline ben coltivate. Casorati girovagava spesso nella valle
sottostante, la mente libera di osservare e di ricavarne spunti da rielaborare
poi in silenzio davanti alla tavolozza.
Un luogo dell’anima per entrambi. Un ambiente
che offriva una straordinaria densità di colori, ma anche un’incredibile
varietà di misteriose sfumature, che suggestionarono la pittura di Casorati –
ora più sereno e tranquillo nel lavoro - rendendo le superfici dei suoi quadri
simili ad una seta opaca. La natura regalava alla sua pittura il gusto di
intonazioni particolari, suggestioni di un’aria melanconica ma non rassegnata.
Daphne
a Pavarolo, il quadro dipinto da Felice Casorati
nel 1932, descrive una donna pallida e piena di riserbo, le mani strette e
appoggiate su un ginocchio. Ha gli occhi socchiusi ma il capo è rivolto in
alto; un’immagine discreta ma anche altera. E’ colta quella figura comunque in
un momento particolare di rapimento esistenziale.
La donna è silenziosa, dimentica di sé, esprime
una bellezza che pare tanto più profonda e lontana dalle parole perché
proveniente dall’intimo. La sua figura, pur ritratta all’interno dell’abitazione,
è tuttavia inserita in un ambiente che si affaccia in maniera prorompente
sull’intera vallata. Questa sembra integrarsi con l’intimità della casa, farne
parte in modo essenziale e prezioso, non mera cornice di estetico abbellimento.
Nell’immaginario del pittore, infatti, il luogo
trasfigura la pittura stessa e le sue componenti. Le finestre di casa si
aprono, l’aria penetra all’interno e permea gli ambienti, in un gioco di
corrispondenze tra interni ed esterni. La figura stessa di Daphne è inondata
dalla luce e dai colori delle colline circostanti. Con tutte quelle tonalità
sul verde, il grigio, il bruno.
Terre verdi e digradanti dalle cime verso il
basso, quasi sovrapposte l’una all’altra, suddivise in fazzoletti regolari,
ritagliati con precisione nonostante le pendenze, tutti coltivati con ordine, attraverso
un lavoro intenso e quotidiano tra i filari delle viti.
E’ il paesaggio ammirato nella fanciullezza
quello osservato davanti alla casa di Pavarolo e riflesso nel dipinto, lo
stesso che rende limpidi i sentimenti e che ricorda un po’ di quella felicità
provata da bambino quando il padre regalò a Felice la prima scatola dei colori.
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