Antonello (1932), di F. Trombadori |
Un viaggio nelle
parole, tra ricerca della bellezza e fuga dagli affanni
Poesia
di Marina Zinzani
(Intervento di Angelo Perrone)
Ho viaggiato tanto
sono entrato dentro case
ho ammirato tappeti
vasi di fiori e porcellane
ho letto il male
la paura e il tormento
su volti sperduti
ho respirato la gioia di un bacio
di una promessa
sussulti
sussulti
ho viaggiato tanto
attraverso pagine e voci.
(ap) Se il ritratto è un genere
pittorico così radicato nella storia dell’arte per la spontaneità dell’impulso
a raffigurare le sembianze di qualcuno, “Antonello” di Francesco Trombadori ha
più di un motivo per incuriosire. Si può coglierlo nel momento storico della
realizzazione dell’opera (1932) con l’evidente influenza delle suggestioni
neoclassiche sulla pittura italiana. Oppure nel fatto che il soggetto
raffigurato, il figlio dell’autore, è stato pure lui uomo di cultura, oltre che
politico di rilievo nel secondo dopoguerra, segno di una singolare comunanza
spirituale tra padre e figlio, tra artista e modello.
La forma ritrattistica ricorre nell’arte
pittorica come filone costante della rappresentazione della realtà, o almeno
della sua componente umana. Strumento privilegiato di percezione del mondo
esteriore attraverso la corporeità delle persone, il ritratto tuttavia subisce
nel corso dei secoli molteplici interpretazioni: dalle raffigurazioni ingenue alle
più sofisticate, o addirittura a quelle che massimamente si allontanano proprio
dal contatto con il reale che ne costituisce il fulcro centrale.
Al punto che l’immagine restituita
dalle opere più recenti prescinde da un’esplicita somiglianza con un soggetto
specifico, e diventa mero pretesto per raccontare altro. Così avviene nella
pittura contemporanea con le decorazioni geometriche che circondano i tratti
della persona in Gustav Klimt, o la decostruzione della realtà propria di
artisti quali Pablo Picasso.
La conseguenza è un declino dell’interesse
per le rappresentazioni figurative, dunque per gli stessi ritratti, a favore di
altre tecniche. E ciò in virtù di quel rilievo primario che via via assume il
tema delle componenti interiori dell’animo umano a dispetto dell’interesse per
l’esteriorità dei personaggi.
Non solo però. Perché questi temi sono percepiti
spesso in opposizione l’uno all’altro, l’interiorità in contrasto con il mondo
esteriore, per l’inconciliabilità tra le angosce morali vissute dall’umanità e
qualsiasi sembianza esterna che possa apparire impropriamente “rassicurante” in
quanto ispirata, sia pure vagamente, al bello in un mondo che lo rifiuta, e
dunque fuorviante e falsa.
In controtendenza invece, la pittura
di Francesco Trombadori subisce il fascino irresistibile del ritratto, che è concepito
secondo i paradigmi di un neoclassicismo, di un ritorno alla bellezza antica della
forma esteriore, ma colta nella sua essenzialità, che perciò non manca di
modernità ed è pervasa in modo sottile dagli affanni che agitano il presente.
Nei ritratti come “Antonello”, si
coltiva il miraggio di una purezza formale della figura senza per questo
scadere nella retorica del tempo passato e nell’imitazione di modelli
figurativi di un’epoca ormai conclusa. La bellezza è ricercata in modo raccolto
ed stringato, senza infingimenti né smancerie. I colori non sono appariscenti
né vistosi, e dominano le tonalità meno sgargianti, dall’avorio, al bianco, a
quel grigio che pervade lo sfondo.
Una ambientazione che non offre
alcun riferimento concreto a specifiche località ma che, proprio per la
vaghezza così preziosa dei colori usati, lascia immaginare che tutto si svolga
ed accada in uno di quei luoghi di incontro tanto amati dal pittore a Roma,
come il caffè Greco di via Condotti, o Rosati a piazza del Popolo.
Luoghi frequentati anche in quel
tempo turbolento da scrittori, artisti, giornalisti, che vi trovano un riparo
dalle intemperie: isole sperdute di cultura e di ragionevolezza in un’epoca che
non vuol sentire parlare né dell’una né dell’altra e che è travolta dall’intolleranza.
Gli occhi, fissi e quasi socchiusi, sono rivolti da Antonello esclusivamente
sul libro che le mani riparano dai disturbi esteriori, un bene insostituibile
che assorbe ogni sua curiosità, isolandolo da tutto nella concentrazione, nella
riflessione, nello studio.
E’ àncora di salvezza, quel libro,
in un mare in tempesta. Involucro precario, eppure così prezioso, di sentimenti
nobili, gli unici capaci di contrastare lo smarrimento e il senso di perdizione
tanto impetuoso e violento.
Nell’isolamento rispetto al mondo circostante,
necessario per resistere alle follie di quella stagione, le pagine del libro
rimandano un’atmosfera che cessa di essere scarna e desertica per divenire
incantata. Come quella che si respira nel meriggio di certe tranquille giornate
romane e che ci lascia immaginare stagioni nuove della vita.
La lettura a bassa voce offre
raccoglimento ma non astrazione dalla realtà. Anzi aiuta a capire perché essa
sia così dura, e le ragioni stesse per cui ci appartiene in tutti i suoi
multiformi aspetti, quelli che meno ci piacciono e gli altri, che danno
esaltazione e speranza.
Nel gesto di chinarsi sul libro c’è tutto il nostro
bisogno insaziabile di conoscenza e immaginazione, la nostalgia delle fantasie
lontane e la ricerca della concretezza quotidiana, la trama misteriosa dei
sogni che le parole provano a raccontarci: astri di una costellazione infinita.
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