Nel processo contro un molestatore seriale in America, la figura del
giudice è molto dibattuta
di Marina Zinzani
Intervento di Angelo Perrone
«Lasciate
qui il vostro dolore e tornate nel mondo a fare cose meravigliose». Sono le
parole della giudice Rosemarie Aquilina, che ha condannato a non uscire più dal
carcere Larry Nassar, il medico che ha molestato per anni moltissime ginnaste.
La
giudice le ha ascoltate una ad una, 140 si sono presentate, obbligando anche Nassar ad ascoltarle. Anche
se lui non voleva.
Figura
forte, che veste stivali da cowboy, la signora Aquilina è apparsa una paladina
delle giovani che hanno raccontato anni di abusi, vite spezzate che non
potranno più avere la leggerezza di un esercizio ginnico, la poesia espressa in
un movimento del corpo.
Le
sue parole di sostegno alle vittime rimarranno nella mente, come il suo
atteggiamento di grande umanità e determinazione. Sono parole che aprono una
porta piena di aria fresca, rigenerante. E forse qualche ginnasta ha già notato
un fiore sbocciare, oltre questa porta.
(ap) Un medico americano, Larry Nassar, è
stato condannato pesantemente per aver molestato un enorme numero di donne. 175
anni di carcere, non è strana in America una pena oltre i limiti della vita
umana, perché lì ogni reato è punito autonomamente e non esiste, a differenza
dell’Italia, la possibilità di ridimensionarla con l’istituto della
“continuazione”.
Le vittime hanno avuto il coraggio di
testimoniare in tribunale ripercorrendo le fasi più dolorose delle loro storie,
e grazie a loro è stato possibile accertare le responsabilità di quel “mostro”.
Hanno potuto farlo, senza lasciarsi intimidire dalla presenza dell’imputato
oltre che dalla pressione dell’opinione pubblica e dalle loro paure.
Eppure non tutto, in questo vicenda, è
così positivo. Le vittime, si dice, sono state “sostenute” nel loro cammino
giudiziario dal giudice, una donna di nome Rosemarie Aquilina, ma lo
svolgimento del dibattimento non è stato affatto esemplare, proprio per gli
atteggiamenti più volte assunti dal magistrato.
Per esempio, respingendo, meglio
liquidando, la richiesta dell’imputato di lasciare l’aula, e obbligandolo a
rimanere, l’Aquilina se ne è uscita con l’affermazione secondo cui la richiesta
“non valeva nemmeno la carta su cui era scritta”. Poi, non si è peritata di
accompagnare (e intervallare) la testimonianza delle ragazze con interventi
continui rivolti all’imputato, del tipo: “Per lei può essere dura ascoltare ma
non sarà mai tanto devastante quanto è stato per le sue vittime passare ore
nelle sue mani. Ascoltarle per 4 o 5 ore al giorno è nulla
considerando le ore di piacere che ha avuto a loro spese, rovinando le loro
vite”.
Nasser sarà un mostro e meriterà quella
condanna pesante, ma Rosemarie Aquilina non è stata un (buon) giudice, venendo
meno al dovere di imparzialità durante la raccolta delle prove. Si è comportata
in modo non corretto verso le parti e con uno stile sguaiato che non è proprio
di chi riveste un ruolo pubblico. In una parola, non è stata al suo posto di
giudice, ma in un altro, diverso da quello che la società le aveva assegnato
per fare giustizia.
Il suo compito non era quello di
schierarsi da una parte contro un’altra, anche perché non era stato ancora
stabilito quale fosse la parte giusta e quella sbagliata, chi avesse ragione e
chi torto, se le donne citate fossero o meno le vittime di un mostro. Doveva
invece solo garantire che il dibattimento si svolgesse con serenità e rigore,
perché la verità dei fatti potesse alla fine emergere. Ha mostrato invece che
tutto era già chiaro (e deciso) fin dall’inizio: le ragazze erano le vittime,
l’imputato era il mostro. Sarà anche così, ma allora, se tutto è palese fin da
prima, a che serve il processo?
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