(Angelo Perrone) Tutta positiva l’espansione della tecnologia? Accanto a innegabili benefici per la collettività, molti problemi. Conseguenze dannose per i singoli oppure indesiderabili per la società. Sono il lato oscuro dell’innovazione e del progresso.
Si pensi agli attacchi informatici alle banche dati private o al furto di dati della sicurezza nazionale, oppure alla miriade di eventi a cui non facciamo più caso. L’utilizzo di dati personali a fini commerciali. Lo sfruttamento arbitrario delle tracce che lasciamo in giro con gli smartphone. La manipolazione delle notizie per influenzare l’opinione pubblica a vantaggio di gruppi, partiti, Stati.
Quello che abbiamo imparato sulla tecnologia non ci tranquillizza sul fatto che essa abbia in sé “natura democratica”: il futuro potrebbe essere in effetti “abbastanza democratico” ma occorre che l’intelligenza artificiale sia usata in maniera adeguata.
Dobbiamo essere consapevoli che essa è stata impiegata in passato, e tuttora lo è, per obiettivi strategici destabilizzanti: alimentare gli estremismi, rafforzare i sistemi autoritari. O per spargere disinformazione.
Ne sono un esempio, non l’unico purtroppo, le manovre ripetute per condizionare le elezioni in America, quelle a sostegno di movimenti sovranisti o populisti in tutto il mondo, o quelle altre capaci di diffondere e alimentare idee antiscientifiche o complottiste (lo si è visto in abbondanza in questa fase di lotta al Covid).
La tecnologia va governata attraverso regole generali, stabilite di comune accordo dai vari Stati. Infatti la tecnica è anche, inevitabilmente, un campo di idee, valori, concetti da cui dipende l’assetto complessivo della società e il suo equilibrio in senso liberale.
L’uso dei big data da parte della Cina costituisce a questo proposito il più consistente precedente immaginato da uno Stato per organizzare le informazioni in suo possesso.
Per quanto non sia apparentemente finalizzato al controllo sociale di massa (innumerevoli gli strumenti a disposizione), è indiscutibile che esso permetta anche una sorveglianza (generalizzata) nei confronti dei cittadini.
Il “sistema di credito sociale”, introdotto dai cinesi, assegna infatti ad ogni soggetto, e ad ogni impresa, un punteggio che identifica la reputazione sociale. Un risultato ottenuto attraverso la raccolta e l’esame di tutte le informazioni disponibili, per misurare aspetti come l’onestà, l’integrità, la credibilità giudiziaria.
Tutto questo dovrebbe servire a migliorare il funzionamento di un paese di enormi dimensioni e perciò di difficile gestione, ma la vaghezza dei parametri e l’opinabilità del giudizio finale (cos’è la “reputazione sociale”?) non rassicura sul buon uso dei dati, specie da parte di uno Stato con un impianto costituzionale illiberale, privo del sistema di contrappesi tra istituzioni e poteri.
Il “valore civico” del soggetto esaminato è un contenitore troppo variegato di condizioni e status, a cui alla fine – in mancanza di correttivi - è sotteso il principio assorbente della fedeltà alle direttive di partito.
Simili problematiche estremizzano i rischi connessi all’uso delle tecnologie, quando l’ordinamento non si prefigga la tutela dei diritti umani e, nel guardare alle azioni dei singoli, trascuri il principio dell’utilità sociale.
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