di Marina Zinzani
Resilienza: parola così usata, di moda, per dare il nome alla trasformazione di un evento avverso in un’occasione positiva.
Si può imparare dal dolore? Si può ricostruire dalle macerie? Si può alzare la testa e guardare oltre? Si può far tesoro di quello che è accaduto e farlo diventare esperienza, per migliorare qualcosa di sé?
Si parla di resilienza oggi, ma la resilienza c’è sempre stata. Alberga dalla notte dei tempi, nei guerrieri sconfitti, nelle donne umiliate, in chi non ha mai trovato voce. Alberga nelle persone sole, che devono trovare un modo per trasformare il prossimo giorno in un momento sereno. Alberga in chi non si abbatte, e schiacciato dall’altro si rialza, come per magia.
La resilienza infatti ha bisogno della magia, ha bisogno di alte connessioni perché si richiede qualcosa di straordinario, e non si venga seppelliti dal senso della sconfitta, o del rancore, o della disistima.
La via da percorrere è terribile, un viaggio nell’inferno da cui si esce poco alla volta, confidando principalmente su stessi. Si deve richiamare una forza che è da qualche parte, ignota. Ma quel momento in cui ci si ferma a guardare un albero in fiore, ed è primavera, e si sente la primavera, significa che la notte, la lunga notte sta terminando, e si vede un po’ di luce.
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