Racconto di
Paolo Brondi
Enia, mia
piccola, dolce Enia, nemmeno un saluto in quel fatale giorno, dopo il falò di
S. Giovanni… neppure un gesto d’affetto, più pudico che mai, testimonianza
della purezza del nostro sentire, scambiato invece per colpa insanabile di
donna trasmessa alla figlia.
Disperse, disgiunte, separate dalla dura realtà di colpevolezza, dal senso di sicurezza raggiunto insieme nei nostri giovani anni, fioriti di un bene mai più conosciuto.
Disperse, disgiunte, separate dalla dura realtà di colpevolezza, dal senso di sicurezza raggiunto insieme nei nostri giovani anni, fioriti di un bene mai più conosciuto.
Tu chiusa in un
cupo dolore, io ansimante d’amore, ma gettata nell’ombra come indegna, e con la
responsabilità di un dramma sopito, e ora rievocato in mio padre.
Ricordi
quell’uomo, quegli occhi che tanto ti hanno spaventato? Era mio padre, tornato
dall’ombra di tanti anni lontano da me, dai miei passi ancora incerti, dai miei
silenzi di piccola bambina, dai miei perché di ingenua adolescente, dalla mia
vita. Era mio padre che da giorni ci spiava attraverso la finestra della Zita.
L’aveva invitato lei, insieme alle sue amiche, raccontandogli tante cose di me,
brutte e belle, e tutto quel silenzio della mia stanza che ogni volta coronava
gli incontri con te. Un padre scosso da profondi contrasti e pronto ai rimedi
più drastici: farmi scomparire alla vista di tutti, contenere la mia ansia
d’amore, dirottarla verso un altro destino, diverso da quello di mia madre, lontano
da quel borgo, da te.
“Devi fuggire
per il tuo bene - mi diceva - per impedirti di ripercorrere un sentiero di
lacerante dolore per te, per me: il sentiero percorso da tua madre, amante da
anni, senza che mai me ne fossi accorto, della sua collega, la caposala
dell’Ospedale”.
Una rivelazione
terribile e distruttiva di ogni incanto. Poi il mio silenzio abulico,
impotente, il silenzio del morire ogni giorno, il silenzio della morte che già
vedevo come residuo destino. Mi sono lasciata portare via, in un viaggio lungo,
quasi metafora della morte, in un tutto vuoto, senza senso. Mi sono trovata,
quasi senza accorgermi, in Sicilia, vicino a Catania, dove, mio padre ha una
casa, lasciatagli dai suoi genitori, e ha trovato anche lavoro: ha comprato un
barcone e fa il pescatore.
Per me, tutto è
tornato al senso usato, appiattito nella monotona e nella fredda cadenza delle
ore. Quel che mi ha ridestato dall’insania di questa tragicità sono state le
ricorrente folate di immagini, sempre pure e belle, di te e di me quando si
cresceva unite, entrambe sofferenti per la privazione di un vero e profondo
amore materno, entrambe assetate di un affetto non morboso, non peccaminoso, ma
raffinato nel dispiegarsi e sostanziarsi di tutti i suoi attributi. Non ti ho
sentita mai come un’amante, non mi sento di assomigliare in questo a mia madre.
Ora riesco a
leggere meglio quel che è accaduto, come unico segno di quella suadente e
gioiosa esaltazione della nostra giovinezza, proiettata in una minimale
gestualità, esaltata dal nostro stare bene insieme, anelante sentimenti da
altri negati.
Ho ripreso a
studiare, frequento l’Università a Catania, e appena laureata mi metterò a
insegnare. Ho conosciuto un giovane, già laureato, e mi sono innamorata di lui.
Forse a giugno ci sposeremo.
Questa, mia
piccola Enia, è la parabola della vita che, ora ci apre alla speranza, ora ci
lascia la pelle dissecata sul deserto degli addii, ora ci fa tornare a sognare
dolci momenti su un’isola felice.
Questa mia lettera, dopo tanto tempo, è come la nebbia che
voglio si apra per te, trafitta da quel raggio di sole che è tutto il bene che
sempre ti voglio, e ti avvolge senza posa…
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