di
Paolo Brondi
Dualistica
è la cultura italiana per tante ragioni e naturalmente anche per l’uso e il
destino del dialetto. Si deve a Croce la distinzione fra dialetto spontaneo e
dialetto riflesso: da una parte il dialetto è usato senza coscienza della sua dialetticità,
dall’altra è usato per fini particolari in specie da chi ha ben presente la
nozione di lingua letteraria. Un giudizio che non ammette repliche è quello di
Gramsci che attribuisce al dialetto un duplice limite, quello della
emarginazione linguistica e quello della emarginazione sociale, e si batte per
l’unificazione linguistica e per l’insegnamento della grammatica. Il fascismo
esaspera il giudizio sui dialetti, predicando che i dialetti denunciano miserie
e arretratezze, inconciliabili con le vocazioni imperiali di cui il nazionalismo
fascista si faceva bandiera.
Pavese,
ne Il Mestiere di poeta, difende
l’uso letterario del dialetto considerando “ogni specie di lingua letteraria
come un corpo cristallizzato e morto, in cui soltanto a colpi di trasposizioni d’innesti
dall’uso parlato, tecnico e dialettale si può nuovamente far correre il sangue
e vivere la vita” (Cfr. in Cesare Pavese, Lavorare
stanca, Einaudi, Torino 1943). Nel ‘ 49, l’anno de La luna e i falò, pone dialetti e lingua su due registri diversi: “Il
dialetto è sottostoria. Bisogna invece correre il rischio e scrivere in lingua,
cioè entrare nella storia, cioè elaborare e scegliere un gusto, uno stile, una
retorica, un pericolo. Nel dialetto non si sceglie, si è immediati, si parla
d’istinto. In lingua si crea”.
Non
sottostoria ma immediatamente rappresentativo di una realtà sociale
estremamente arretrata è il dialetto romanesco di Giuseppe Giacchino Belli: la
plebe romana è l’essenziale protagonista dell’opera belliana e il poeta ne
rappresenta ogni piega servendosi della lingua che essa stessa usa. ”Esporre le
frasi del Romano quali dalla bocca del Romano escono tuttodì, senza ornamento,
senza alterazione veruna, senza pure invenzioni di sintassi o troncamenti di
licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso; insomma
cavar una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo” (Giuseppe
Gioacchino Belli, I Sonetti,
Mondadori 1952).
Diverso
è il carattere del dialetto quando se ne fa un uso nobile e ufficiale in
contesti socioculturali come quello veneziano, napoletano, siciliano, ove le
voci dialettali vengono richiamate per raffinar la lingua ed a garanzia di
indubbia espressività. Con lo sviluppo della tecnocrazia e del variegato universo
dei media i dialetti vanno
progressivamente regredendo seppur più a livello lessicale che fonologico ed è
qui che si apre un capitolo nuovo e antico per la scuola: quello di educare i
giovani ad agire criticamente sulla norma alienante dei media e a maturare il pieno possesso della competenza linguistica
fondata scientificamente e aderente alla realtà linguistica che viviamo.
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