I nostri limiti: la
lezione che accomuna stranamente il rag. Fantozzi alla Silvia di Giacomo Leopardi
di Marina Zinzani
(Commento a Uno
sguardo, oltre le finestre di casa, PL, 4/7/17)
Fantozzi
ci ha lasciato. O meglio Paolo Villaggio, ma è un po’ come se fosse morto il
suo personaggio. Ci
siamo riconosciuti tutti, in Fantozzi: nel suo senso di vita limitata. Un
recinto, fatto di filo spinato invisibile, che rendeva impossibili i suoi
tentativi di fuggire, improbabile la sua trasformazione.
Fantozzi rimaneva Fantozzi, un perdente, schiavo, patetico, divertente, desolante. Se uno guarda le sue storie, che ci hanno fatto tanto ridere, viene proprio suggerita questa parola: limite. Faceva quello che poteva in un campo ristrettissimo. Cioè poco, cioè male.
Fantozzi rimaneva Fantozzi, un perdente, schiavo, patetico, divertente, desolante. Se uno guarda le sue storie, che ci hanno fatto tanto ridere, viene proprio suggerita questa parola: limite. Faceva quello che poteva in un campo ristrettissimo. Cioè poco, cioè male.
“A
Silvia” di Leopardi è una poesia che tutti abbiamo studiato a scuola. L’abbiamo
imparata a memoria, comprendendo bene il suo significato: la fugacità della
vita, le sue promesse non mantenute, il pensiero che diventa parte così intensa
più dell’azione stessa, in una sorta di innamoramento celato, che nutre ma
inespresso.
Anche
“A Silvia” esprime un limite. Ben più considerevole di quello fantozziano, ma i
due aspetti, apparentemente così diversi, hanno alcune analogie.
Non
si spicca il volo. Molto difficile. Illusione per le promesse non mantenute,
illusione per una vita impossibile da cambiare. Restano celle e considerazioni
struggenti.
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