martedì 18 luglio 2017

Fuori dal coro


Molti modi per sentirsi “straniero”: quel senso irriducibile di “estraneità” nella vita di ciascuno. Camminare sulla stessa terra non sempre dà sollievo

di Mariagrazia Passamano *


- Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? Tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
- Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
- I tuoi amici?
- Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
- La patria?
- Non so sotto quale latitudine si trovi.
- La bellezza?
- L'amerei volentieri, dea e immortale.
- L'oro?
- Lo odio come voi odiate Dio.
- Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
- Amo le nuvole. Le nuvole che passano. Laggiù. Le meravigliose nuvole!
(Charles Baudelaire, Lo straniero)



Straniero: parola a me cara. Sul mio documento d’identità alla voce segni particolari avrei dovuto chiedere di aggiungere la connotazione di straniera. É un tratto caratterizzante la mia persona da sempre.
La mia condizione richiama quella dell’esule, della persona in eterno moto, di Medea. Sono nata straniera, in terra straniera, da genitori stranieri. O meglio sono nata forestiera.
Anche nel mio amato paese, ero quella che “veniva da fuori”, e poco contava che mia madre fosse di un paese vicino e mio padre comunque campano. Il mio sangue era misto, non vantavo origini pure, i miei avi erano anche loro discendenti dei sanniti, ma non contava, perché basta un nulla, un elemento difforme, non corrispondente, mancante, per essere considerato “straniero”, ovvero diverso, estraneo, strano.
Strano, perché in fondo l’elemento della stranezza è la lettera scarlatta dello straniero, basti pensare alle coppie corrispondenti di termini straniero/strano in italiano, ètranger/étrange in francese, stranger/strange in inglese, fremder/fremd in tedesco. Lo straniero rappresenta, rispetto alla massa, un elemento di “non ordinarietà”, di singolarità. Ma non ordinario, estraneo in relazione a chi o a cosa? Straniero rispetto a quale metro di paragone?
Lo straniero è colui che si imbatte contro un ordine precostituito di consuetudini, di convincimenti e talvolta di pregiudizi. È l’elemento di diversificazione rispetto all’ovvio, al comprovato. È l’ascia che va a lesionare il muro del nichilismo pervasivo delle comunità fondate sull’abitudine. Lo straniero è il silenzio in mezzo al frastuono, può rifugiarsi nei boschi come il personaggio shakespeariano di Ermia per evitare i severi ed ingiusti ordini del padre, oppure arrivare dal mare come Odisseo.
È l’osservatore “barbaro” che può alterare e guastare il nostro assetto politico e sociale. È colui che è fuoriuscito dal coro, dal gruppo dei pari, è il pentito, il condannato e l’esiliato. É colui che si sente forestiero in un corpo che non riesce ad abitare, è l’uomo che puzza agli angoli delle strade, un pazzo qualsiasi del mio paese che errante si aggira tra gli antichi ruderi di una realtà altra, incapace di distinguere tra ciò che è dentro e ciò che è fuori il suo delirio.
Si può essere stranieri rispetto all’esistenza, alla felicità, alla verità, alla pace. L’errore più grande è forse quello di pensare di non esserlo, è la ricerca dell’omologazione e la rinuncia alla multiformità. L’incubo è quello di provare orrore rispetto alla propria condizione di “forestiero”, di creatura transeunte e “meticcia”, buttata qui per caso, con un destino ignoto ed un’origine ancora più incerta.
Per brevi tratti ci troveremo a condividere con altre genti lo stesso destino, camminare sullo stesso suolo, parlare la stessa lingua, e tutto questo ci aiuterà a sentirci meno soli, a sentirci parti di un tutto, di viverci come “cittadini”; è un modo per percepire meno vicina l’ora in cui tutto finirà e per impreziosire lo svolgimento, la narrazione, il viaggio.
In questo sputo chiamato vita, in questa parentesi incerta tra il morire e il dormire rimaniamo tutti in attesa, preservando la speranza di imbatterci come Odisseo in Nausicaa, in colei che non fugge, che rimane immobile, tranquilla dinanzi allo sconosciuto sporco di salsedine ed in colei capace di contenere e di accogliere l’urlo di sgomento dell’errante.

* Scrive sul blog Invent(r)arsi:

Nessun commento:

Posta un commento