La curiosità di andare oltre e l’esperienza
dell’ignoto. Un modo diverso di guardare le cose, e di trovare se stessi
di Mariagrazia
Passamano *
Amo
la solitudine. La amo perché è ciò che mi consente di ritrovarmi, di cercarmi,
di interrogarmi e perché, come scriveva Carl Gustav Jung, è “per me una fonte
di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta”. Più di ogni altra
cosa adoro viaggiare da sola, l’ho sempre fatto. Adoro portare in giro per il
mondo la mia smania di conoscenza. Amo confondermi tra gli orizzonti delle
realtà altre e mimetizzarmi tra nuovi popoli. Detesto il concetto di turista
così come lo intendiamo oggi, ovverosia come un accumulo bulimico di foto e di
nuove bandierine da aggiungere sul mappamondo.
Un
tempo il turismo aveva uno scopo culturale. Qualcuno forse ricorderà il Grand Tour, che
consisteva in un lungo viaggio nell’Europa continentale effettuato dai ricchi
giovani dell’aristocrazia europea (a partire dal XVII secolo) e destinato a
perfezionare le loro conoscenza. Durante il Tour, i giovani imparavano a
conoscere la politica, la cultura, l’arte e le antichità dei paesi europei.
Passavano il loro tempo esplorando, studiando e ricercando.
Oggi
invece siamo tutti viaggiatori distratti e disorientati. Bisognerebbe ritornare
al concetto di turismo inteso come occasione di conoscenza. Dovremmo imparare
ad essere tutti turisti permanenti. Invece, non ci immergiamo nelle acque
nuove, non ci sporchiamo; ci limitiamo solo ad esportare modelli contraffatti di
noi stessi. Non siamo più capaci di perderci nei meandri oscuri
dell’ignoto.
Quando sono all’estero mi capita spesso di andare nei locali affollati o sugli autobus per ascoltare le persone del luogo, i loro discorsi e per osservare la loro gestualità. Viaggiare è esplorare. Per poter vivere davvero una fusione totale con il mondo sconosciuto bisognerebbe partire pensando di non tornare. Il viaggiare rappresenta un’occasione per uscire dai propri limiti quotidiani, per eludere i nostri tarli mentali, per ampliare la nostra visuale e per imparare che esistono altri lati dai quali poter guardare lo stesso punto.
Quando sono all’estero mi capita spesso di andare nei locali affollati o sugli autobus per ascoltare le persone del luogo, i loro discorsi e per osservare la loro gestualità. Viaggiare è esplorare. Per poter vivere davvero una fusione totale con il mondo sconosciuto bisognerebbe partire pensando di non tornare. Il viaggiare rappresenta un’occasione per uscire dai propri limiti quotidiani, per eludere i nostri tarli mentali, per ampliare la nostra visuale e per imparare che esistono altri lati dai quali poter guardare lo stesso punto.
Ai
ragazzi giovani consiglio di non avere remore, di andare. Tra un nuovo iPhone,
una borsa Gucci o un paio di scarpe firmate e un viaggio, anche se breve,
scegliete il viaggio. Per tornare bisogna aver il coraggio di andare via. Siate
curiosi! La rottura con ciò che vi è familiare vi farà scoprire lati di voi
inimmaginabili. Porterete dietro voi stessi, ma solo l’essenziale di ciò che vi
appartiene davvero arriverà a destinazione. Scoprirete un punto dell’anima
vostra che eleggerete come centro della vostra resistenza. Vi renderete conto
che il nucleo vitale della vostra esistenza si sostanzia nel cambiamento, nella
variazione e che come diceva Marcel Proust: “L’unico vero viaggio verso la
scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi
occhi”.
Molte
persone vivono ignorando per anni la quercia che si erge sul loro viale di
case, e pretendono poi di diventare improvvisamente attenti solo per il fatto
di aver preso un aereo. Ciò che andrebbe rivoluzionato è il nostro modo di
guardare le cose. Andrebbe debellata la nostra incapacità di cogliere il nuovo
in ciò che riteniamo ormai già appreso, scontato e acquisito una volta per sempre.
Non
è il viaggio il titolo grazie al quale impariamo ad avere dei nuovi occhi, ma
la nostra predisposizione alla ricerca. Il mondo è il riflesso del nostro modo
di leggerlo. Un uomo cupo, atrofizzato nelle proprie abitudini, ossessionato
dall’avere, non è mai in viaggio, non è mai in rivolta, non compirà
nessun Gran tour, mai.
Viaggiare
significa affidarsi al caos, all’inaspettato, all’imprevisto e all’ignoto.
È conoscenza che nasce come conseguenza naturale della curiosità e
dell’esperienza. È uno stato mentale. Si inizia a cercare nel proprio giardino
di casa e poi via via ovunque, in ogni luogo in giro per il mondo. Nel
bellissimo libro “Le città invisibili”, Italo Calvino scriveva: “Forse del
mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile
della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si
sa quale è dentro e quello che è fuori”.
Per
poter davvero compiere il viaggio dei viaggi dovremmo imparare ad essere
girovaghi permanenti, turisti attenti e coraggiosi e saltimbanchi
dell’esistenza; ad essere talmente capaci di abbandonarci all’incognita per
eccellenza chiamata vita da non essere più in grado di distinguere ciò che sta
dentro e ciò che sta fuori le nostre palpebre.
* Scrive sul blog Invent(r)arsi:
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