(ap)
Sulla vicenda dei “verbalizzatori”, circa 1000 persone che, raccolte sotto il
consorzio Astrea, hanno perso nel 2017 il posto di lavoro nei tribunali, come
addetti appunto alla verbalizzazione degli atti di udienza, ci sono stati diversi
interventi su PL. Da ultimo: Il
disservizio “fisiologico” (PL, 6/12/17), La stenotipia nei tribunali:
una storiaccia?
(PL, 3/12/17).
L’aggiudicazione della nuova gara di appalto di questo
servizio, così essenziale per il funzionamento della giustizia penale in
Italia, dopo anni nei quali questi compiti erano stati svolti con diligenza e
puntualità da Astrea, ha visto prevalere un altro consorzio, Ciclat, nonostante
non avesse alcuna esperienza o competenza nel settore (si è sempre occupato di
“rifiuti” e di “pulizie”), fosse privo di strumentazione adeguata, e
soprattutto non disponesse di personale esperto e preparato per occuparsi della
trascrizione degli atti orali compiuti in udienza. Un risultato di per sé piuttosto
singolare ed incomprensibile.
Da qui, non solo le battaglie sindacali e politiche di
questo gruppo di lavoratori, ma anche le numerose lamentele degli operatori
giudiziari per le modalità lacunose e insufficienti del servizio svolto ora dal
nuovo consorzio. Un cammino, in cerca di uno sbocco positivo per il lavoro di
tante famiglie, e per lo stesso servizio-giustizia.
di Catia Bianchi
Charlot – il mitico
Charlie Chaplin - stringeva bulloni, noi, “verbalizzatori” nei Tribunali -
“suonavamo” la pianola. Sempre all’infinito e in modo ripetitivo. Esempi di vite
lavorative fatte di gesti uguali a se stessi e di tempi stabiliti dagli altri,
non da noi.
Però non ce ne lamentavamo,
andava bene così. Sentivamo di fare qualcosa di utile. Per noi stessi, le
nostre famiglie, e, lo sapete?, anche per la giustizia. Insieme a tanti altri,
naturalmente, dai giudici alle forze dell’ordine, a tutti i professionisti, con
cui condividevamo il senso dell’onore e del dovere.
Una differenza c’è
in ogni caso, ed è enorme tra l’operaio Charlot e noi. Questi era “muto”, la
nostra invece era “una vita di parole”. Tante, sentite ogni giorno, pronunciate
da magistrati, avvocati, testimoni ed imputati, da mettere su carta con
precisione e fedeltà, dopo averle “battute” alla pianola, la chiamavamo così la
tastiera che era lo strumento della nostra professione. Come abbiamo imparato a
fare in tanti anni di lavoro.
Quelli – gli anni
in cui ci siamo formati ed abbiamo lavorato duramente - sono svaniti d’un colpo
nell’estate ormai dell’anno scorso, il 2017. Ci è stato detto che non erano più
importanti nè la competenza né l’esperienza. E anche i dirigenti, quelli che
decidono al Ministero della Giustizia, hanno detto di sì, non serviva più
quello che avevamo fatto in decine di anni.
«Tempi moderni» è proprio
il mio film preferito. Un’opera d’arte che parrebbe affrontare tematiche
anacronistiche, invece è impressionante l’analogia tra i problemi che quel
buffo vagabondo andava affrontando e la battaglia che molti di noi stanno
portando avanti. Al centro sempre la conquista di un posto di lavoro ma nel
rispetto della dignità personale. Il nuovo consorzio, costretto ad una ricerca
frettolosa di personale, ci aveva proposto di assumerci. Ma con un contratto di
pulizie!
Nel film,
l’immagine del “gregge di pecore bianche” è seguita da quella di una fiumana di
operai che esce dalla fabbrica: indica la subordinazione di tanti al potere. C’è
un’unica pecora nera, coraggiosa, che si distingue e fa a modo suo: quelli
siamo noi, i verbalizzatori, noi che non vogliamo rinunciare a sentirci liberi
e protagonisti del nostro destino. Vogliamo un lavoro e dei soldi a fine mese,
come tutti. Ma non accettiamo scelte sbagliate e degradanti. Ci chiediamo se
per caso tutto il paese non sembri, in tanti campi, troppo rassegnato e
incapace di reagire.
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