di
Paolo Brondi
Una
storia emblematica è quella narrata da Ivan Aleksàndrovič Gončaròv (1812-1891) nel romanzo Oblomov, pubblicato
nel 1859 (tradotto da Einaudi nel 1979). Oblomov, proprietario di una vasta
tenuta, è stato considerato dalla critica un antieroe, segnato dall’inerzia
fisica e psichica, simbolo di una generazione viziata e apatica. In realtà,
l’immergersi nel flusso narrativo di una così complessa e non facile opera
permette di individuare uno spazio dove sia possibile piantare un senso altro.
Il soggetto che occupa la scena, sdraiato sul letto in una casa di una desolata provincia, è una sorta di frammento di una terra lontana, smarrito in mezzo ad un brulicare di corpi e all’infittirsi di voci aggressive e roboanti.
Il soggetto che occupa la scena, sdraiato sul letto in una casa di una desolata provincia, è una sorta di frammento di una terra lontana, smarrito in mezzo ad un brulicare di corpi e all’infittirsi di voci aggressive e roboanti.
Lo
spaesamento, di fronte ad una realtà dominata da codici culturali che impongono
una sostanziale alienazione e ove prevalenti sono le regole dell’afferrare e
dell’incorporare, lo induce a chiudersi
in se stesso, scegliendo di preservarsi attraverso il silenzio e il sonno. E’
un rifugio spesso cercato, e perfino con un sonno eterno, dai tanti Oblomov dei nostri tempi, vittime della omologazione, privi di autonomia o di attivo inserimento nel
mondo produttivo.
Il
non agire è la carta che Oblomov gioca
in opposizione a un tempo che ha reso favola, o addirittura fuochi fatui, tutti
quei sogni evocati da una realtà primigenia ove sono affermate la dignità di
uomo e la propria pace, la piena libertà di sentimenti e di fantasia, la felicità
familiare e le cure della proprietà. Così in definitiva la concretezza
raggiunta da Oblomov si riduce in una maschera vuota, segno di sconfitta di una
coscienza che nell’aderire al reale si ritrae nell’incomunicabilità e nella frustrazione.
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