lunedì 10 febbraio 2025

La giustizia senza condizionamenti, bene comune

La corruzione del linguaggio pubblico


(Angelo Perrone) Il concetto di “separazione” ha origini antiche nella storia del pensiero. Risale all’antica Grecia e in particolare a Aristotele l’idea di distinguere (ne “La politica”) le tre funzioni principali del governo: legislativa, esecutiva, giudiziaria.
Tuttavia è con l’illuminismo, un salto di secoli, e in particolare con pensatori come Montesquieu, che il concetto si definisce nella sua forma moderna, come cardine della democrazia liberale. Questo principio avrebbe garantito un sistema di controlli e bilanciamenti, dove ciascun potere avrebbe limitato l'eccesso degli altri. 
È un principio destinato a orientare la coscienza stessa con la distinzione tra laicità dello Stato e fede religiosa. Un antidoto all’autoritarismo e al fanatismo dogmatico o religioso, in nome appunto della libertà del pensiero e del rispetto dei diritti individuali.
Esiste una versione moderna di “teologia politica”. Abbiamo vinto le elezioni, così la legittimazione non ha limiti: eccede il sacrosanto diritto-dovere di governare, e diventa licenza di sopraffazione.
Quel principio cardine è sottoposto a torsioni, manipolazioni, contestazioni. È sempre presente la tentazione delle semplificazioni e delle forzature. Anche se il potere è stato conquistato legittimamente, conta il modo di usarlo rispettando le leggi, le altre istituzioni, il buon senso. 
La nozione di limite, coincidente con quella di separazione, è connaturata al concetto di democrazia rappresentativa. Esprime consapevolezza e misura. Il voto non giustifica il sopruso, né l’offesa alle persone o ai ruoli. 
L’abuso del potere diventa travolgente, di fronte a insicurezze e paure. Servirebbero pazienza, dialogo, spirito costruttivo. Invece prevalgono la rozzezza e la brutalità. L’unico obiettivo è rafforzare il potere, alzando muri, asserragliandosi entro la cittadella conquistata, ravvisando minacce e complotti ovunque. 
Il tema torna di attualità. Accade con il progetto di riforma costituzionale voluto dal governo Meloni, e in specie dal ministro Nordio, definito, sommariamente, della “separazione delle carriere” dei magistrati italiani. 
Il progetto non si esaurisce nella distinzione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Peraltro rovinosa, perché è ordinamentale, non solo funzionale, riguardante le “mansioni” svolte in concreto, come già avviene oggi. Ne conseguono: l’allontanamento dei pubblici ministeri dalla giurisdizione e dall’imparzialità nell’amministrazione della giustizia, e la loro fatale attrazione nella sfera del potere esecutivo.
Contiene, quel progetto, di più. Creazione di due diversi consigli superiori della magistratura, adozione dello strumento del sorteggio per stabilirne la composizione, formazione di un “alta corte” tutta composta di soggetti di nomina politica, per giudicare gli illeciti disciplinari, inevitabilmente proiettata verso un atteggiamento censorio. Si tratta di un progetto di disarticolazione dell’assetto costituzionale, tendente al ridimensionamento del ruolo giudiziario, svilente per il controllo di legalità imposto dalle leggi.
Non v’è altra giustificazione sul piano storico e ideale. Inesistente il legame tra separazione delle carriere e qualità del giudizio perché non c’è connessione tra la carriera e la capacità di interpretare e giudicare. Ininfluente, la separazione, sulla funzionalità della giustizia, di fronte alla mancanza sistematica di risorse, alla inefficienza degli strumenti, come il processo telematico, approntati sommariamente e con mezzi inadeguati. Infine su tutto: lo scandalo delle carceri, ridotte a tappa finale degli ultimi e disperati, in sprezzo del principio costituzionale del recupero sociale e della rieducazione individuale. Tutto era più urgente, dall’abuso di ufficio alle norme sulle manifestazioni di piazza e all’avventura dispendiosa dei migranti tradotti in Albania.
I vari aspetti della riforma sono finalizzati allo scopo di ledere il principio della separazione dei poteri, e di condizionare il giudizio penale. L’idea che, per la prima volta, si preveda il sorteggio come strumento di selezione per comporre i futuri Csm è rivelatrice. La pura casualità meglio del merito, della responsabilità, della saggezza. 
Il rischio però, nel citare queste radici morali e culturali (Montesquieu, la rivoluzione francese, la Costituzione del 1948 nata dalla Resistenza e dalle migliori tradizioni culturali, di stampo socialista, cattolica e liberale) è di individuare un riferimento troppo astratto, pur se nobile, dunque lontano dalla gente qualunque. 
Non è tuttavia questa, già enorme, la sola difficoltà. Si assiste ad una corruzione del linguaggio che investe ogni settore della vita pubblica, perciò lo stesso dibattito sulla giustizia, alimentando fraintendimenti. Una parte della politica e dei media alimenta questa retorica, dimentica che il valore della giurisdizione è un bene comune irrinunciabile. Preservarla dovrebbe essere impegno di tutti. Senza, per questo, giustificare errori o malefatte di singoli.
Eppure la cronaca racconta un’altra storia. Mettere in correlazione, per esempio, le critiche alla riforma costituzionale con vicende processuali è concettualmente abnorme e sfocia nell’irresponsabilità istituzionale. Eppure a proposito del caso Amasri, il torturatore libico colpito da mandato di cattura della Corte penale internazionale, arrestato in Italia ma scarcerato in mancanza di iniziative del ministro della Giustizia, e rimpatriato con un volo di Stato, non si è esitato.
Di fronte a una comunicazione della Procura di Roma, prevista da legge costituzionale (n. 1 del 1989, art. 7), il linguaggio è degradato. Eppure la legge è chiarissima nel precludere, di fronte a denunce di reato, apprezzamenti di qualunque tipo riservandoli all’apposito “tribunale dei ministri”, come avvenuto. 
Descrivere la magistratura come soggetto che sistematicamente usa la legge per scopi diversi dalla ricerca della verità è fuorviante e deleterio, oltre che ingiusto. Magari sarà anche utile, a fini elettorali, alimentare un clima acceso e distorto nei rapporti tra istituzioni. Ma alla lunga l’opinione pubblica ne esce disorientata e stordita. In affanno, quando prova a disvelare il falso e orientarsi.
Certo questa dinamica è colpevolmente distraente. Non aiuta a capire né a risolvere i problemi che angustiano la vita dei cittadini, e rendono incerto il loro futuro. Alimenta l’eclissi dello Stato di diritto e sospinge il Paese verso il declino inarrestabile.

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