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Il labirinto tra noi

di Paolo Brondi

Non c’è dubbio che l’età moderna e contemporanea abbiano insegnato all’umanità ad avanzare impugnando l’infallibile bussola del progresso, della fiducia in un pensiero che supera gli ostacoli aggredendoli, capace di aderire in maniera astuta e flessibile alla realtà, sicuro di ridurre a trasparenza logica l’inestricabile complessità, di dar forma all’informe.
Contemporaneamente non è venuto meno il ricorso continuo alla metafora e alla mitica immagine del labirinto per spiegare la complessità di un universo elastico, fluttuante, articolato in un numero indefinibile di biforcazioni; o le verità nascoste nei giri e rigiri dell’inconscio; o, più semplicemente, per illustrare l’anatomia della seconda cavità dell’orecchio interno, nella sua doppia funzionalità di trasmissione del suono e di mantenimento dell’equilibrio statico e dinamico del corpo nello spazio.
Già fin dal 1962 Italo Calvino rilevava come fosse difficile tener testa all’enorme varietà dei dati e delle relazioni, non solo per l’ovvia deficienza dell’esperienza empirica, ma anche perché ormai obsoleti gli strumenti della cultura positivistica, storicistica e di un realismo oscillante tra l’ingenuità e la menzogna. Negli stessi anni, Jorge Luis Borges, nel Giardino dei Sentieri (ripubblicato in Finzioni, Adelfi, 2003), indicava il labirinto come simulacro di un universo ove coesiste una reta crescente e vertiginosa di tempi, divergenti, convergenti, paralleli, in un proliferare di innumerevoli futuri destinati a realizzarsi tutti e a dar vita alla totalità delle possibilità. Oggi il labirinto è ancora tra noi, come simbolo di tutta la fragilità di un terreno, percorso da gallerie sotterranee, lungo le quali si aggira un continuo perdersi delle generazioni viventi in guerre, eccidi, crudeltà, molto ingegno e molta stupidità, e ricorrente ricerca di una felicità o di riscatti ideologici impossibili.

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