(con un commento di Angelo Perrone)
(Una fragile armonia, A
Late Quartet, è un film del 2012 diretto da Yaron Zilberman e interpretato da Philip Seymour Hoffman, Christopher Walken, Catherine Keener e Mark Ivanir)
Un
quartetto d’archi si appresta a portare in scena l’Opera 131 di Beethoven. E’
un brano particolare, perché non prevede pause. E senza pause, i suoni
diventano vorticosi, si rischia di perdere l’accordatura degli strumenti. Così
ha voluto Beethoven.
Ma
prima dell’inizio della stagione musicale, uno di loro, Peter, si ammala
gravemente. Gli diagnosticano il morbo di Parkinson, le sue mani non dominano
più il violoncello. E’ un personaggio malinconico, Peter, ha negli occhi il
ricordo ancora fresco della moglie, morta un anno prima, ha la consapevolezza
di una vita vuota, senza di lei. Ma non basta questo: il suo corpo mostra i segni della malattia, il dolore della
perdita si somma ora alla paura. Sa cosa l’attenderà, cosa spetterà al suo
corpo.
Decide
il ritiro dalle scene, trova una violoncellista degna di sostituirlo. Lo farà
dopo il primo concerto, dice.
Nel
frattempo la notizia lascia ammutoliti i suoi compagni. Ma dura poco questo
stupore. Come se fosse calata una coltre di nebbia nelle loro menti, l’armonia
fra di loro si spezza, tutto sembra esplodere, e quello che divampa sono le
ambizioni represse, le gelosie, la
sensazione di non essere mai contati abbastanza all’interno del quartetto.
I
cavalli senza sosta della musica di Beethoven corrono, in un vortice di
rivendicazioni e di perdita: non c’è più la bellezza della musica che li
accomuna, i venticinque anni insieme che li hanno resi famosi in tutto il
mondo. Ognuno dei tre gira attorno al proprio piccolo mondo. Senza accorgersi
della grande sofferenza di Peter.
Beethoven
costringe chi suona l’Opera 131 a non fare pause, e allora la corsa forsennata
dei suoni sembra diventare la corsa della vita. Nulla si vede più: né la vera
sofferenza, né la vera gioia.
Solo
Peter vede. Sente. Gli manca la moglie, che quasi vede apparire come un
fantasma mentre intona un brano struggente che lei, cantante lirica, cantava,
“Die tote stadt”, la città morta…
Ci
sarà l’addio alle scene di Peter. Ma sarà una sorpresa per i compagni. Fermerà
nel bel mezzo del concerto, con il teatro gremito, le sue mani. Appoggerà il
violoncello, si alzerà e parlerà al pubblico.
“Signori
e signore, io mi devo fermare, i miei amici sono troppo veloci per me, non riesco a tenere il passo. E’ di Beethoven
la colpa, vuole che suoniamo l’Opera 131 con la tacca, senza pause. A me serve
una pausa...”
C’è
nella voce di Peter, nella sua figura in piedi sul palco, l’improvvisa capacità
di cambiare le cose, tutte le cose: mentre il pubblico ascolta rapito le sue
parole, i tre compagni si risvegliano, lo guardano, si guardano, i loro occhi si velano di lacrime. Cominciano a vedere,
dopo mesi di oscuramento. Le lacrime
agli occhi e la decisione di chiudere lo spartito, di suonare in libertà.
Allora
cavalcheranno i cavalli tormentati di Beethoven, mentre un’emozione nuova cade
sui loro volti, e ogni cosa sembra ritrovare pace, armonia. Ci voleva il
viaggio all’inferno dell’amico, il vero dolore, per arrivare a questo.
(ap) In un quartetto d’archi, l’armonia è molto rara. I musicisti devono mostrare le loro individualità ma anche ottenere un’unica voce. Un precario equilibrio, a prezzo di rinunce e di compromessi, nel groviglio sorprendente e pericoloso tra vita e lavoro. Gli imprevisti possono metterlo a repentaglio, mostrando la fragilità del singolo, rendendolo nudo a se stesso, ponendolo in conflitto con il gruppo.
Eppure l’umanità di ciascuno non può essere un drammatico inciampo, uno scoglio catastrofico da superare comunque, la negazione di sé. Piuttosto, può diventare una risorsa nella ricomposizione delle relazioni, che si alimenta dell’incontro-scontro con l’altro, e dell’accettazione dei propri limiti.
Se uno solo è l’autore della musica, servono diversi interpreti per suonarla secondo il suo spirito. Abilità e cuore, tecnica e trasporto, si tengono per mano, secondo un intreccio misterioso, nella musica. E nella vita. Le note allora ritrovano la loro singolare armonia e risuonano liberamente, non più guidate da uno spartito. Travolgenti ed emozionanti. Come quel do diesis minore dell’opera 131 di Beethoven, l’ultima, si dice, che Franz Schubert volle ascoltare prima di morire.
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