Chiudo il tuo libro,
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…
con la tua vita intera
sei nei miei canti
come un addio a me.
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie
trecce snodo.
Sibilla Aleramo a Dino Campana,
Mugello, 25-7-1916
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le
rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.
(Dino Campana a Sibilla
Aleramo, 1917)
(ap) Un tumultuoso carteggio poetico descrive ed esalta la storia d’amore
tra Dino Campana e Sibilla Aleramo agli inizi del ‘900, intrecciata a gioie
esaltanti e dolori inesauribili, vissuta tra esaltazioni e momenti depressivi, comunque
senza risparmio di forze e di emozioni.
Quando si conobbero, avevano 31 anni lui e 40 anni lei. Dino aveva capelli tra il biondo e il rosso, grandi
baffi, occhi mobilissimi; Sibilla il
volto ovale, capelli biondi, la bocca sensuale. Provenivano da vicende
esistenziali diverse e tormentate.
Terminati faticosamente gli studi tecnici, Dino manifestò sintomi per i
quali un medico diagnosticò “una forma psichica a base di esaltazione”. Il disagio da cui era pervaso lo portò a una costante
irrequietezza, a prediligere il viaggio nomade ed incostante, ad essere
incapace di collocarsi in un luogo e a relazionarsi costantemente con gli
altri; nei momenti di maggiore crisi trascorse dei periodi in manicomio
Sibilla, d’altra parte, più grande di qualche anno,
aveva avuto una vita travagliata, contrassegnata non solo dal tentativo di
suicidio della madre, ma soprattutto da una violenza sessuale e dalla costrizione
a sposare il seduttore che l’aveva messa incinta. Considerata la donna più
bella d’Italia, pagò l’esperienza disastrosa del matrimonio e la liberazione da
quell’incubo a prezzo dell’abbandono dell’amato figlio.
La sua successiva vita, ardimentosa e lontana
dalle convenzioni, piena di inconsuete e temerarie iniziative verso gli uomini,
manifestava l’insoddisfazione perenne di fronte ad un bisogno d’amore mai
soddisfatto. Scrisse che questo stato d’animo le derivava "in parte da
mia madre e in parte dalla perpetua nostalgia di mio figlio".
Tra loro, ci fu una scintilla istantanea. Immediata
fu la passione fisica. La storia tra i due fu tormentata e logorante, tra
separazioni e riappacificazioni, con alti e bassi, liti e riavvicinamenti,
provocati ora dall’uno ora dall’altra, in un continuo alternarsi di sentimenti ed
emozioni. Sibilla aveva avuto molte storie, Dino era molto preso da lei,
nonostante tutto. Le scrisse: “La passione e niente altro, tutto il resto è
fuori, tutto il resto viene dopo, non importa quando. Vogliamo intanto vederci
per un giorno?”
Vissero una “storia
chiamata amore”, ma il loro rapporto divenne un calvario. Fu lei a troncare la relazione
con Dino, alla fine troppo geloso del passato irrequieto della donna che lei del
resto non si peritava di nascondergli. E lui non seppe uscirne, finendo i suoi
giorni in un manicomio. Fu proprio davanti alle porte del manicomio che si
concluse la loro storia, il doloroso viaggio che avevano chiamato amore.
Sibilla era stata il
primo ed unico amore di Dino, i cui versi rivelano la sua natura di uomo romantico
e fragile, innamorato perdutamente, pervaso da una visione dolente della vita.
Anche Sibilla, che
pure non volle mai piegarsi all’inclinazione autodistruttiva di lui, perché sempre
desiderosa di vivere, lo aveva molto amato; su quell’amore, in fondo, ella non riuscì mai a scrivere un
solo rigo.
L’ultimo grido d’amore
lo lanciò però Dino, rimasto solo, sentitosi abbandonato da lei, senza più speranza,
quando dal manicomio le scrisse sconsolato e malinconico: “togliermi anche
l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare”.
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