Il destino di un
giovane frate, alle prese con il più terribile dei demoni
di Paolo Brondi
Giulio
Corsi, commissario di polizia in pensione, stava riponendo su una scodellina di
latta tantissime briciole di pane per poi installarla tra i rami del pesco che
giungevano fino all’altezza della finestra del suo studio: sugli stessi, ogni
giorno, si posavano passerotti, pettirossi, merli, cinciallegre, fringuelli, e
il loro cinguettio risuonava come un'invocazione a non abbandonarli al destino
del freddo, o della voracità dei gatti del quartiere, se le briciole fossero
state sparse solo nell’erba del giardino.
Li
osservava, non visto, attraverso la finestra a tende semitrasparenti, e gioiva
del loro banchettare, vivendo in quei momenti la magia della semplicità, in
stridente contrasto con i rumori del mondo. Ad interrompere questo sano
piacere, ecco un ripetuto trillo di campanello, stonato ed inopportuno.
Sollevò la
cornetta e sentì gridare “dottor Corsi, mi ascolti, c’è il demonio qui con me,
sono in pericolo. Ho bisogno del suo aiuto!”. Riconobbe la voce, anche se
affannata e quasi balbettante, e, non uso a negarsi, rispose che sì, lo avrebbe
soccorso! Si trattava di Fra Marino della vicina Chiesa dei Cappuccini. Era un
frate di età ancora giovane, caro a tutti per genuina bontà e profonda
religiosità.
Messa giù
la cornetta, studiava come e quando lo avrebbe raggiunto, pensando
all’assurdità di una richiesta che nel demonio identificava il pericolo. Temeva
che nella quotidianità del frate potesse rinnovarsi il sapore antico dei
pregiudizi, delle stregonerie, delle pratiche divinatorie o la paura dei geni,
dei diavoli. Oppure, era l’appello di un uomo in crisi di fede, infelice,
tormentato.
Il demone
che turba un frate così buono- rifletteva- forse è la sindrome della
melanconia, ingenerata dalle votate solitudini della vita monastica. Già i
Padri della Chiesa, fin dal IV secolo, avevano interpretato e descritto le
ragioni del malessere dei frati nell’essere posseduti dal demone dell’akedia, il più terribile dei demoni.
Aggredisce il monaco verso l’ora quarta e lo assedia fino all’ora ottava. Fa sì
che il sole sembri lento e quasi immobile e che il giorno duri cinquanta ore.
Il monaco prova odio per il luogo in cui si trova, per la stessa vita e per
ogni tipo di lavoro.
Queste
meditazioni fecero scivolare via il tempo e quando decise di uscire per recarsi
all'abitazione del frate era passata più di un’ora dall'invocazione. Una
leggera patina di neve copriva la strada e l’imbrunire lo chiazzava di ombre,
rendendo i passi di Giulio più lenti e cauti per non scivolare. Quando fu
prossimo alla meta, intravide una strana figura uscire veloce dal portone dell'abitazione
del frate: tutto avvolto in un mantello nero, con il viso coperto da una
pesante sciarpa e cappello calato fin quasi agli occhi, era figura
irriconoscibile e rapidamente si eclissò.
Affrettò il
passo. Dentro sentiva un’inquietudine oscura, un sordo rimorso, per aver fatto
passare forse troppo tempo. Salì le scale della canonica e giunto alla porta
dell’appartamento del frate, la trovò aperta. Entrò e si trovò di fronte la
stanza adibita a cucina: sul tavolo una bottiglia di vino rosso, consumato per
metà, due bicchieri, evidentemente usati; quattro sedie impagliate,
diligentemente poste ai quattro lati del tavolo; una poltroncina orientata
verso il televisore; una credenza sul cui piano erano allineati alcuni vassoi,
del pane, della frutta, dei formaggi; il crocefisso e il quadro di S. Antonio
alla parete di fronte alla finestra.
Tutto era
in ordine, forse eccessivo. Osservando più attentamente, scoprì che il
pavimento era stato pulito da non molto e s'insospettì. Si chinò per
ispezionare ogni angolo, ma non trovò nulla. Stava per sollevarsi da quella
posizione, quando l’occhio fu attratto da un puntolino nascosto dall’ombra del
battente della porta d’ingresso: lo raggiunse con la punta del dito indice e
per il colore e la viscosità gli fu subito chiaro che si trattava di una
traccia di sangue. Passò dalla cucina alla stanza da letto, seguendo l’odore e
la lucentezza del pavimento parimenti pulito.
Vide un
giaciglio ben composto e assai semplice, con accanto un comodino su cui era
poggiato un Vangelo e nella parte opposta alla finestra un grande armadio, di
foggia antica, alto più di 2 metri e con doppi battenti del tutto chiusi. Anche
nella stanza il pavimento era lucente e ancora l’occhio del criminologo cadde
su una macchiolina in prossimità della base dell’armadio. Non ebbe più
esitazioni: aprì i due battenti! Gli apparve un corpo rannicchiato nel vano
interno, con addosso il saio marrone, il cappuccio calato su quasi tutto il
viso e con il cordone che usciva teso in direzione del collo ed annodato in
alto al bastone orizzontale dell’armadio.
“Mio Dio si
è impiccato!” Esclamò il criminologo, facendo un balzo indietro! “Ma no! –
subito si disse - le tracce del sangue e la pulizia del pavimento che segni
sono se non quelli del trascinamento di un corpo ferito e molto probabilmente
già morto? E l’assassino si è poi messo ad inscenare l’impiccagione!”. Stava
già proponendosi di telefonare con il cellulare al comando della polizia e dei
carabinieri di zona, quando il suo occhio fu attirato dal colore del viso non
del tutto coperto dal cappuccio: era un colore improbabile, così roseo e lucente,
per un cadavere!
Sollevò il
cappuccio e la sua sorpresa non fu meno traumatica della prima: gli apparvero
le sembianze del frate ma quel corpo non era altro che un manichino! Una
simulazione caricaturale non di un corpo che nella morte conserva tutto intero
il senso della fine del vivere, ma di un feticcio del corpo. La scena appariva
doppia al criminologo: da un lato, la prova dell'arte, del lavoro, del gioco,
dell’ideazione, dell’intenzionalità, a livello del costruttore del manichino;
dall’altro l’emozione evocata dal vestimento del manichino, con saio,
cappuccio, e cordone.
In entrambi
i casi, la disparità dei linguaggi, quello dell’opera e quello del vestimento,
suggeriva una pluralità d'ipotesi: era stato lo stesso frate a progettare quel
particolare spettacolo? E se sì, le tracce, pur minime, di sangue, di quale
ferita erano il segno? Il frate era stato rapito, forse ucciso, trasportato
altrove e l’omicida aveva creato quel diversivo? Ma, in questo caso, c’era
premeditazione: il manichino doveva essere stato creato da tempo e come avrebbe
potuto ricreare le sembianze del frate se non in costante presenza del medesimo!
Occorreva
soffermarsi sul linguaggio che poteva parlare pienamente un’altra lingua: non
il manichino, ma la veste, che il criminologo osservò più da vicino, un poco
sdrucita e qua e là scolorita, poteva parlare del frate, della sua semplicità,
della sua povertà. Quello era proprio il saio, il cappuccio, abitualmente
indossato dal frate! Ed il cordone, non più ai fianchi, ma elevato a cappio,
vanificato il simbolo originario, ne denotava l’opposto: l’annullamento della
vocazione e del ruolo di frate cappuccino!
Lo scosse
da queste meditazioni il forte suono delle campane dell’Ave Maria. Abbandonò la
scena e, come se orientato da una forza sconosciuta, si recò in chiesa. Stava
officiando il Padre Cappuccino superiore e assistevano compunti numerosi
fedeli. Si sedette a lato in una panca di mezzo e nei pressi di uno dei
confessionali. Il frate intonò il canto del Salve Regina e crebbe la solennità
dell’ora. Tutti si alzarono in piedi mormorando i versi ed anche Giulio cercava
nella memoria le parole dell’inno che pure lui cantava in coro nella chiesa
della sua prima adolescenza.
D’improvviso,
una nota stonata, un gemito. Si guardò intorno. Tese l’orecchio, il lamento
proveniva dal vicino confessionale. Senza farsene accorgere, si avvicinò alla
tenda dell’entrata, la scostò un poco e con un sussulto vide frate Marino
legato alla sedia, con il petto nudo e colmo di sangue che fluiva da una profonda
ferita all’altezza del cuore, farfugliava, ormai morente, parole che il
criminologo cercò di comprendere: “demonio”, “sempre, la donna, lei, Elvir…”,
“agend.. scrivani.. i.. a” e poi il silenzio.
Giulio restò per un attimo a guardare la figura di fra Marino e lo prese un senso di pietà per quel servitore di Cristo e per una fine che ne rinnovava la sorte. Richiuse la tenda, uscì all’aperto e telefonò agli ex colleghi: il commissario, dott. Gino Renzi; il maresciallo, il procuratore, e tutti i funzionari giudiziari, esperti nel rilievo d'impronte digitali e fisico-chimiche. Giunsero sul posto entro una mezz’ora. Al dott. Corsi fu richiesto di presentarsi in Procura, alle ore 9.00 del giorno dopo per testimoniare sul fatto.
Giulio restò per un attimo a guardare la figura di fra Marino e lo prese un senso di pietà per quel servitore di Cristo e per una fine che ne rinnovava la sorte. Richiuse la tenda, uscì all’aperto e telefonò agli ex colleghi: il commissario, dott. Gino Renzi; il maresciallo, il procuratore, e tutti i funzionari giudiziari, esperti nel rilievo d'impronte digitali e fisico-chimiche. Giunsero sul posto entro una mezz’ora. Al dott. Corsi fu richiesto di presentarsi in Procura, alle ore 9.00 del giorno dopo per testimoniare sul fatto.
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