Il caso Dreyfus, la
giustizia e la verità: uomini alle prese con la loro coscienza
di Marina Zinzani
(Commento al film L’ufficiale e la spia di Roman Polanski)
La
ricostruzione dell’affare Dreyfus, nel film “L’ufficiale e la spia” di Roman
Polanski, porta lo spettatore in una sorta di macchina del tempo. Sembra di
essere in quegli anni, che partono dal 1894, in un ideale immaginario più
gentile di oggi, suggerito così tante volte dalla pittura impressionista.
L’atmosfera
è quasi da thriller, il racconto diviene svelamento del potere e degli intrighi
del potere, disposto a sacrificare un innocente, il capitano Alfred Dreyfus,
per un nascondere un errore giudiziario. Dreyfus è condannato per avere passato
informazioni ai nemici tedeschi. Il fatto che sia anche ebreo rende il
pregiudizio più che suggerito.
La
figura dell’ufficiale francese Georges Picquart ha qualcosa di epico: è l’eroe,
ma non quello che agisce di petto, sicuro nelle sue certezze, che non teme
nulla. E’ un uomo prima di tutto, con un problema di coscienza. Sa, ne è quasi
certo, che Dreyfus è stato condannato ingiustamente e che l’informatore è un
altro. La strada che percorre sarà una lenta ricerca di ciò in cui crede: la
giustizia, l’etica, la verità. Strada disseminata di pericoli e di intralci,
che provengono da chi quei principi dovrebbe tutelarli, avendo alte cariche.
E’
un eroe umano Picquart, che si riempie di disincanto: vede cadere ciò in cui
crede ma non può sacrificare la vita di un innocente, in nome di perversi
meccanismi del potere.
Picquart
è l’eroe e lo è anche Emile Zola, che nel suo articolo accuserà gli artefici di
questa vicenda, facendo ogni nome. Pagherà anche lui, come Picquart, con la
prigione.
La
cultura che si erge a paladina della giustizia, che diventa voce di denuncia
contro il potere, contro la sopraffazione: ricorda Emile Zola la figura di tanti
giornalisti che hanno pagato a caro prezzo la loro ricerca di verità, le loro inchieste
scottanti. Ricorda anche la forza e il coraggio di quegli intellettuali che
hanno fatto tanto con le parole, dimostrando che queste possono risvegliare le
coscienze, i popoli. Più semplicemente, le parole possono denunciare.
Quando
la vicenda si è conclusa, quando Dreyfus verrà liberato, seppur con la grazia,
e Picquart verrà premiato per il suo coraggio con un’alta carica, accade
qualcosa di imprevisto: Dreyfus va a trovare Picquart e reclama il suo grado, non
ottenuto a causa dell’ingiusta prigionia. Cosa non possibile, gli fa presente
Picquart, forse con rammarico. Dreyfus esce dalla stanza e non si rivedranno
mai più.
Non
un grazie da parte di Dreyfus verso l’uomo che gli ha salvato la vita, finendo
anche in prigione, pur di liberarlo.
Ecco,
uno degli aspetti attuali del film è questo: il gettarsi in un contesto, un
progetto, una missione, in nome di un principio. Probabilmente elevato. Quello
della giustizia, in questo caso, altre volte quello della solidarietà,
dell’aiuto.
Turba
l’ultima scena, perché il silenzio di Dreyfus, quel grazie mancato, quella
riconoscenza che lui non avrà mai verso Picquart fa parte della storia degli
uomini. Chi ha dato e non ha ricevuto riconoscenza. E’ un silenzio che fa male,
perché la bilancia è squilibrata, e si avverte una nota amara.
L’eroe
umano rimane racchiuso nel suo mondo, e le cose in cui crede, nobili, si velano
improvvisamente di malinconia.
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