Racconti dedicati a figure moderne e antichissime. Evocano suggestioni e pongono interrogativi.
Oggi, La maestra.
Già pubblicati: L’attrice, Lo scrittore, L’astrofisico, La ballerina.
di Laura
Maria Di Forti
(Introduzione
di Angelo Perrone)
(ap) Dai primi anni di vita, a quelli della maturità, e
ancora oltre. Un impegno per i giovani, un lavoro per gli insegnanti di ogni
livello. Entrambi durano sempre diversi anni; per i ragazzi corrispondono
all’intero ciclo di studi, o per chi vi si dedica per professione addirittura
all’intera esistenza lavorativa. Tempi lunghi in cui si mescolano fatica ed
esaltazione, attesa paziente e impegno continuo. Nell’esperienza quotidiana,
talvolta, anche negligenze, errori, trascuratezze.
Quanti conoscono il lento, precario ciclo di crescita di un
semplice bruco prima che, se ci riesce, diventi farfalla leggera e curiosa,
svolazzante nella varietà di colori stupefacenti? Quanti riflettono sul fatto
che il senso del tempo può essere quello di condurre tanto alla morte quanto ad
una sorprendente metamorfosi?
Ma poi c’è una dimensione ulteriore rispetto al ciclo
ordinario degli studi. Forse non c’è mai una fine per l’apprendimento. Magari è
più contenuto nei tempi e negli scopi, o è mascherato da un’esigenza di
semplice curiosità. Si parla, volando alto, di “formazione permanente”: perché ci
sono sempre nuove conoscenze da acquisire per trarne appagamento o vantaggi.
Stage di approfondimento, corsi di riqualificazione: passaggi per contrastare
disoccupazione e crisi economica, o fare un salto di qualità.
Per tornare sulle dispense, non importa il mestiere scelto che
magari è fuori della scuola. Anche dopo che si è concluso il corso degli studi,
può accadere a chiunque di aver necessità di qualcosa in più. Indipendentemente
dal lavoro, dagli interessi, dalle passioni, magari dal tempo a disposizione.
Se non fatto per noia o indifferenza, è il gesto che spinge ad aprire un
giornale o un libro, a partecipare ad una discussione animata, a porsi qualche
domanda. E a cercare di trarne risposte.
Se a suo tempo non abbiamo capito a cosa servisse studiare, tempo
inutile e sprecato, privo di stimoli, sicuramente abbiamo portato a casa un
risultato. Personaggi odiati od ammirati, argomenti che ci hanno convinto nel
profondo o infastidito sino alla repulsione, eventi che erano una straordinaria
avventura dell’uomo, o una vergognosa tragedia. Scoperte da cui abbiamo tratto,
anche senza esserne consapevoli, un orientamento per le nostre scelte.
A ben vedere, a volte abbiamo saputo prendere delle
decisioni, o ne abbiamo evitate di pessime, proprio in virtù di quanto imparato
sui banchi della scuola, o della vita. In fondo l’osservare qualsiasi cosa,
dalle più piccole, come le foglie autunnali che cadono, alle più vistose, come i
trucchi della vita sociale o le alchimie della politica, ci pone sempre le
stesse domande. Perché accade? Come possiamo comportarci? Se siamo meno
sprovveduti nell’affrontarle dobbiamo essere riconoscenti a chiunque, per un
certo tratto dell’esistenza, ci abbia insegnato qualcosa, piccola o grande,
prendendosi cura di noi e in fondo volendoci bene.
Faccio la maestra elementare da quasi
quarant’anni e mai mi sono lamentata della vivacità dei miei alunni, della loro
insaziabile voglia di parlare, ridere, del loro bisogno irrefrenabile di
muoversi.
Sono sempre felice con tutti questi
bambini indisciplinati che mi girano intorno come pulcini al seguito della
chioccia. Mi sento più mamma che maestra e forse riesco, con questi scolaretti,
ad essere più paziente dei loro stessi genitori.
E questi bimbi, che vengono trascinati
fuori dai loro letti la mattina presto quando vorrebbero rimanere al caldo
sotto le coperte, questi bimbetti che entrano nell’aula con gli occhi ancora
assonnati, appena mi vedono si rallegrano e mi vengono incontro per
abbracciarmi e farmi vedere i loro compiti, piccoli capolavori frutto di tanta
fatica. Io allora li correggo e quando mi accorgo che non sono stati eseguiti
come avrebbero dovuto, o addirittura che non sono stati affatto assolti,
sorrido e, borbottando quel tanto che basta, metto il malcapitato a sedere
vicino alla cattedra e mi accerto che svolga il suo dovere nel migliore dei
modi.
“Meglio dopo che mai” dico sempre,
“anche se sarebbe stato meglio prima, piuttosto che dopo!”
In classe insegno italiano e storia e
spiego come si dividono in sillabe le parole e la differenza tra elisione e
troncamento.
Poi, ogni venerdì, premio i miei
scolari con la lettura di un libro. Talvolta è una storia avventurosa, altre
una commediola umoristica oppure un racconto fantastico. Ai ragazzi piacciono
molto i libri che parlano di bambini simili a loro come Gian Burrasca, storia
divertente e scanzonata, ma quando in classe leggo Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery, tutti ascoltano in
silenzio, assorti, come rapiti da quel racconto così particolare e commovente.
Martina, una mia scolara di quinta
elementare, è scoppiata a piangere sentendo il racconto della volpe. Ci sono
voluti quattro venerdì per terminare il libro ma la settimana dopo, Giorgio, a
nome di tutta la classe, mi ha portato una piantina di rose.
“Maestra” mi ha detto, “la curi e la innaffi
come farebbe il piccolo principe con la sua rosa.”
Momenti indimenticabili.
Questi bambini tanto scanzonati e
ridanciani, mai un secondo fermi, disobbedienti e spesso svogliati, sanno
essere anche degli indimenticabili, straordinari piccoli uomini e piccole donne
capaci di aprirti il cuore e di riempirlo con affetto e gratitudine.
Talvolta mi viene di pensare che ad
imparare sono io. Loro mi hanno insegnato che si può ridere di tutto e che la
vita bisogna viverla con leggerezza.
“Farfalle” mi disse un giorno Clara,
una bimbetta di otto anni, “le farfalle sono felici e per questo volano. Voglio
volare anch’io, maestra, voglio volare di felicità”.
Clara, nella sua semplice innocenza,
era convinta che la cosa più importante non fosse diventare ricchi o
importanti, ma essere felici. Felici e basta. E non è forse vero?
Fare la maestra non è facile. Bisogna
avere una grande dose di pazienza, molta dedizione, spirito di sacrificio e
occorre saper guardare il mondo con gli occhi puri dei bambini. E non è
semplice, perché noi adulti non riusciamo a vedere oltre l’apparenza, abbiamo
dimenticato a usare la fantasia e a credere che le cose abbiano un’anima. Loro,
i bimbi, sono convinti che tutto accada per magia, credono alle fate, si
immaginano compagni di gioco inesistenti e popolano il mondo di fate e di
animali fantastici e perciò lo rendono migliore, lo rendono abitabile ai loro
occhi.
Poi, quando cominciano a crescere e a
ragionare come dei piccoli adulti, cambiano scuola e cambiano insegnanti ed io
non li vedo più e allora, di tanto in tanto, ripenso ai miei alunni di tanti
anni prima e mi assale la curiosità di sapere che adulti siano divenuti. Riderà
ancora per un nonnulla Giuseppe, che era un bambino trenta anni fa e che ora sarà
forse marito, padre, magari farà l’avvocato o l’imbianchino, chissà? E sarà
sempre giudiziosa e assennata Roberta, sempre solerte nell’aiutare i suoi
compagni, generosa e pronta a rinunciare alla sua merenda per darla a
Mariuccio, che si dimenticava sempre la sua?
“Carlo seduto”, “Federica spiegami il
feudalesimo”, Francesco cerca il soggetto nella prima frase di pagina nove”.
Sono frasi che ho detto infinite volte, cambiando, di volta in volta, soltanto
i nomi.
Ma ora sono stanca, fra poco andrò in pensione,
saluterò i miei alunni e loro diventeranno ombre del passato. Il mio mondo dei
ricordi sarà popolato da tutti i bambini ai quali ho insegnato a leggere e a
scrivere, che mi hanno raccontato le loro strampalate storie e che mi hanno
donato tante risate e un intero mondo più bello e fantastico del mio piccolo,
talvolta meschino e spesso crudele mondo reale.
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