di Marina Zinzani
(Introduzione di Angelo Perrone)
(Tratto da “Racconti della metro”)
(Angelo Perrone) La metro non è l’unico luogo-simbolo delle città moderne. Certo particolare. In uno spazio piccolo e super affollatosi ritrova un’umanità eterogenea. Persone sconosciute con destinazioni diverse. Difficile scambiarsi sguardi, rivolgersi parole. Ogni persona, un mondo a sé. Pensieri, desideri, preoccupazioni.
C’è poi una maschera espressiva che nasconde l’intimità. Il viso è chino sullo smartphone, sedotto dalla magia dello schermo. Un ripiegamento fisico, oltre che mentale. Non siamo più abituati a guardarci intorno, non accade di incrociare gli sguardi. Ciascuno conserva la sua diversità, persino il mistero.
Marina Zinzani prova ad immaginare pensieri e sentimenti di qualcuno dei viaggiatori. Dietro ogni volto, può esserci una storia da conoscere, tutta da scoprire. E in cui ritrovare qualcosa di noi. Dopo le storie di Agnese, Sergio, Lucia, Enrico, Roberta, Vincenzo, Vittoria, Benedetta, Ettore, Francesca, Annalisa, Miriam, Piero, Lucrezia, Simona, Claudio, ecco quella di Elisa
Ci sono delle parole che restano. “Faccia vivere bene suo padre, per il tempo che gli resta”. Quel dottore aveva detto delle cose buone con le sue parole. Aveva inquadrato in quella frase tutta la sua impotenza di medico di fronte alla malattia, e la sua potenza di uomo, un uomo può utilizzare bene il tempo che gli resta, aiutare un padre affinché il suo tempo a scadenza sia vissuto bene.
Ed è vero, è andata così. In quei tre mesi io e papà ci siamo divertiti come non mai, pur non facendo niente di particolare. Lui faceva la spesa e cucinava, io mangiavo con gusto, a volte facevo commenti critici, che lui però raccoglieva per migliorare il piatto successivo. Andavamo alle mostre, nei musei, al cinema, agli incontri letterari.
Siamo andati anche a concerti stupendi, per non parlare del teatro. Erano anni che non andavamo a teatro. Tre mesi in cui abbiamo vissuto tutto quello che non ci è stato possibile vivere prima, perché eravamo presi da tante cose. Il tempo sembrava illimitato, e invece quel medico ci aveva dato una scadenza.
Però, quante cose si possono fare in tre mesi. Se non si perde neanche un giorno, neanche un’ora. Se non si dorme sul divano, annoiati o infastiditi da una cattiva tv. Si esce presto la mattina, come uscivamo noi, andavamo nei mercati, qui a Milano c’è solo l’imbarazzo della scelta. Diventa un piacere fare la spesa, scegliere la verdura giusta per fare un buon pranzetto, scegliere la frutta, essere entusiasti delle primizie, comprare le patate novelle.
E poi anche andare al bar e deliziarci con una brioche e un cappuccino. Una vita spesa a stare alla larga dai dolci, dalle calorie, privandoci di un momento di grazia. Un maritozzo, quella panna che esce, non è una delizia? Anche papà si era sporcato la bocca, ci veniva da ridere ad entrambi.
Che tristezza, perché penso a queste cose. Devo essere forte, non lasciarmi andare troppo, un po’ va bene, il lutto deve essere elaborato, ma è feroce il lutto, lo puoi far entrare certi momenti, come un ospite che sta sul pianerottolo, può entrare per qualche secondo, ma non farlo accomodare. Altrimenti non vivi. Non vivi più, perché tu devi continuare a vivere e sei consapevole del vuoto, del deserto, di chi non c’è più.
Accidenti, proprio oggi dovevano venirmi questi pensieri. Perché mi sono venuti? Ah, il tema che devo dare ai ragazzi in classe. Le parole che restano. Le parole che restano nella storia. Parigi val bene una messa. Lasciamo stare. Parole di eroi. La mafia è un fenomeno umano e come fenomeno umano ha un principio e una fine, lo diceva Falcone. Le parole in un ambito più intimo. Mamma. La prima parola di mia figlia. Un momento che una madre non dimentica. E dopo? Mamma, vado a studiare all’estero. Lei che è diventata grande e lascia il nido. Le parole di Giulio, dopo quarant’anni.
Ci siamo fatti compagnia. Una dichiarazione d’amore sobria, ad un anniversario. Bella. Senza fronzoli né gioielli e neanche rose rosse. E le parole di Francesca, la mia migliore amica. Grazie perché mi sei stata vicina, perché non ce l’avrei fatta senza di te, senza il tuo aiuto. La sua guarigione facilitata dalla mia vicinanza forse. Le parole di mia madre. Studia, insegna, lascia qualcosa ai tuoi ragazzi. Lei che era stata un’insegnante, i ragazzi erano come dei figli, la fermavano ancora per strada dopo anni quando la incontravano, e stavano mezz’ora a parlare. Altri tempi.
I miei ragazzi oggi. Cosa dire. Avvilente? Senza parole? Non so. Sono io che non riesco a comunicare bene? O sono annichilita dai loro discorsi, dalla loro apatia, dal loro menefreghismo? Ci sarà un punto d’unione, no? Ilaria dice che un punto d’unione c’è sempre, che le persone non sono poi così negative come sembrano. Non ne sarei tanto sicura, subentra lo sconforto a volte.
Le parole che restano. È un bel titolo, un bel tema. Prima di darlo, e poi di raccoglierne gli scritti, sarebbe meglio parlare con i ragazzi. Parliamo un po’ di più. Senza l’ansia del programma, se sono indietro, senza fossilizzarmi su degli autori, che li annoiano. Suscitare interesse, pathos, passione: questo è un buon insegnante, questo vale più delle migliori pagelle e delle interrogazioni imparate a memoria. Pathos. Forse da qualche parte c’è anche in loro, schiavi dei cellulari, inquadrati come soldatini nelle loro cose, tutti omogenei.
Un discorso prima. Far parlare loro. Magari all’inizio non sono interessati, poi parla una ragazza, e poi qualcuno si inserisce, forse anche altri hanno delle cose da dire. E alla fine quello che è emerso si scrive, dopo esserselo un po’ condiviso, richiamando il proprio vissuto.
Dai. Una botta di positività ci vuole, devi crederci. Siamo arrivati. Crescenzago.
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