di
Paolo Brondi
Chi
legge più i versi? La domanda, problematica e non semplicemente retorica, va
posta anche per la narrativa. Chi legge ancora Ungaretti, Malaparte, Gadda, De
Robertis, Papini, Moravia, Pratolini?
E chi ascolta le voci di Piovene, Parise, Soldati, Brancati e di tanti altri, ora, apparentemente spente o spinte alla deriva dalle nebbie della virtualità, dalla prepotente sicurezza del postmoderno, dall'inquinato gusto dei lettori?
E chi ascolta le voci di Piovene, Parise, Soldati, Brancati e di tanti altri, ora, apparentemente spente o spinte alla deriva dalle nebbie della virtualità, dalla prepotente sicurezza del postmoderno, dall'inquinato gusto dei lettori?
Opportuna
è la riflessione che non sono quelle voci responsabili del loro oblio. Le
determinazioni vanno cercate nella coscienza apocalittica del nostro tempo,
freneticamente spinta al nuovo, alla celebrazione dei montaliani idoli di creta e a sentenziare il
limite, la parzialità o il fallimento di ogni opera appartenente al passato. Certo
è "altro", altra esistenzialità e storia ciò che quelle
"voci" raccontano, rispetto alla presente e ai propri linguaggi e
sarebbe utopica la loro restaurazione, ma proprio qui nasce la valutazione che
quelle voci, più che estaticamente apprezzabili, vanno comprese come stimolo ad
una azione umana volta a fuggire la condanna kafkiana
per cui “si appartiene soltanto alla voce
che viene meno, al luogo che scompare” , o elevate a comprendere che la tradizione va salvata con tutte le
sue voci, come "voci del mondo" e in un continuum vitale e
rassicurante.
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