di
Giovanna Vannini
Mi immersi nella follia. Solo lei, lei sola sapeva
come fare per condurmi in quella perdizione. Non chiusi gli occhi, anzi li
spalancai all’ignoto, fermo: nello sguardo, nel passo, nel corpo massiccio
irrigidito, tutto concentrato in quella ricerca di follia. Follia d’amore.
Cos’era se non follia d’amore? Potente, viscerale, straziante, un bruciare
dentro, un fiammeggiare da ogni mia apertura.
Per lei, lei che mi tagliava i tendini, mi stirava i muscoli, mi scheggiava le ossa. Ma non potevo farne a meno per sentirmi vivo! E quando nei rari momenti di passaggio, un fiato di benessere mi alitava sulle spalle, soffrivo, per quella follia in assenza, per il non pensarla abbastanza, per la spiacevole sensazione di abbandono che il lasciare gli inferi mi infondeva.
Per lei, lei che mi tagliava i tendini, mi stirava i muscoli, mi scheggiava le ossa. Ma non potevo farne a meno per sentirmi vivo! E quando nei rari momenti di passaggio, un fiato di benessere mi alitava sulle spalle, soffrivo, per quella follia in assenza, per il non pensarla abbastanza, per la spiacevole sensazione di abbandono che il lasciare gli inferi mi infondeva.
“T’amo d’odio”- le dissi, in quell’unico giorno in
cui ne fui capace- Lei sprigionò odore di fiera in caccia, tacque. Gli occhi mi
saltarono dalle orbite e un tremito da febbre gialla mi prese. Finché
stramazzai al suolo, sudato, furioso, indifeso. Fu un raggio di luna ad
aiutarli a ritrovarmi su una panchina a nord del parco, dove l’umidità della
notte marca ogni stagione. Avevo gli occhi finalmente chiusi e le labbra disegnate
in un sorriso. Le mani erano nere, brucianti, come due tizzoni ardenti. Non vollero spiegarsi mai cosa mi avvenne. Prima.
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