(Ricordando
Pia Pera, la scrittrice che aveva fatto del colloquio con la natura la ragione
della sua vita)
(ap) Quel giardino di casa nella campagna alle porte di Lucca era un luogo infinitamente strano e tuttavia sorprendente. Il regno delle piante e della natura, al tempo stesso gentile e selvatico. Il rifugio dove si era raccolta quindici anni fa per vivere e scrivere. Un posto dove si sentiva finalmente felice, forse perché così separato dalla realtà circostante.
Da ultimo, Pia Pera, scrittrice, intellettuale raffinata, traduttrice dal russo, lo ammirava da lontano, costretta soltanto a contemplarlo, immobile sulla sedia a rotelle, a causa della sla che l’aveva colpita da tempo e che il 26 luglio l’ha portata via.
(ap) Quel giardino di casa nella campagna alle porte di Lucca era un luogo infinitamente strano e tuttavia sorprendente. Il regno delle piante e della natura, al tempo stesso gentile e selvatico. Il rifugio dove si era raccolta quindici anni fa per vivere e scrivere. Un posto dove si sentiva finalmente felice, forse perché così separato dalla realtà circostante.
Da ultimo, Pia Pera, scrittrice, intellettuale raffinata, traduttrice dal russo, lo ammirava da lontano, costretta soltanto a contemplarlo, immobile sulla sedia a rotelle, a causa della sla che l’aveva colpita da tempo e che il 26 luglio l’ha portata via.
Ora che era ammalata, aveva trasformato il suo giardino in un interlocutore
magico al quale raccontava, interrogandosi, i momenti della sua malattia. Il suo
ultimo libro Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2015), che ha appena vinto il premio Rapallo, è tutto
dedicato al confronto tra la sua anima e la malattia così invadente. Senza infingimenti o maschere. Il libro non dispensa pillole di saggezza a
buon mercato. Mostra la paura di fronte al buio della notte. E tuttavia non
manca di leggerezza e serenità. La vita può sottoporci ad una prova terminale
tremenda quando il male si accompagna alla coscienza e alla lentezza.
Non solo una passione, quella del giardino, ma un pretesto di vita ed una
vocazione letteraria. Le sue piante, che coltivava con sapienza ed amore, e che
vedeva crescere lentamente, erano oggetto di osservazione acuta e occasione di
riflessione, di muto dialogo su di sé, sulla vita, sul mondo. L’orto come luogo
essenziale dell’anima, delle sue tensioni, degli slanci irrisolti, delle
speranze, dove era possibile in fondo coltivare la stessa bellezza. Persino
un’esperienza culturale, coincidente con la letteratura stessa, in cui aveva
trasfuso il suo mondo così naturale e insieme fantastico.
Temeva che fosse la più effimera delle arti, quella del giardino, rispetto
alla pittura, alla scultura, alla stessa letteratura, destinate queste a
sopravvivere al loro autore e a vivere senza di loro. Forse si sbagliava. Il
suo giardino, che voleva non mostrasse troppo la mano del suo autore, sfugge
alla precarietà della natura. Attraverso le sue parole, trasmette leggerezza e
serenità, costituisce un’avventura dell’intelligenza e della sensibilità;
rinnova il paradiso dell’infanzia con la sua ansia di libertà. È destinato a
superare la precarietà rovinosa del divenire se, come diceva, persino l’erba
secca o un fiore appassito, quando le cose cambiano, mostrano una loro bellezza
misteriosa.
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