di
Marina Zinzani
(ap) I “racconti del sabato”: una
giornata della settimana, occasione di un racconto. E’ un momento particolare,
spesso infarcito soltanto di maggiori impegni, faccende di casa, per una donna.
Da trascorrere correndo, con le ore ancora una volta contate, insufficienti.
Un tempo per fare ciò che si è
rimandato in attesa di trovare spazio tra le proprie cose, oppure, invece, per
dedicarsi a qualcosa di piacevole, divertente; leggere un libro, guardare un
film, uscire con amici di vecchia data. Trovare pace e serenità, piccoli
piaceri. Accade anche di non fare nulla, guardarsi intorno in casa, fare una
passeggiata. In compagnia dei propri pensieri.
Per Celeste, la corsa del sabato è
un’abitudine costante, quasi un rito. Soprattutto un dovere, un’esigenza legata
alla volontà di seguire una dieta per buttare giù i chili di troppo che mettono
a rischio l’estetica e la salute stessa. Manca il sottile piacere della brezza
mattutina sul viso, la leggerezza delle gambe sempre più sciolte con l’aumento dei
passi. Il peso eccessivo ha messo a rischio le relazioni sociali, il rapporto
con gli uomini. La fiducia in sé stessa.
Il cibo è un assillo ed un pericolo
costante, che riemerge di continuo durante le giornate di Celeste e persino nel
percorso del sabato mattina, a ricordarle la minaccia che incombe su di lei. La
corsa di Celeste è strenua e logorante, senza sosta e priva di attimi di
sollievo perché la meta finale è di quelle impossibili da realizzare: la
perfezione di un’immagine che ci metta al riparo da ogni insicurezza. Ma il vero sollievo sarà l’accettazione, se
possibile, del proprio limite.
Gli altri racconti pubblicati: Eliana, Frida, Agata, Ettore.
Correre. Correre la mattina presto. Correre il sabato mattina quando la città sonnecchia e la vita riprende a rilento. C’è meno traffico, ci sono i parchi invitanti e zone inesplorate raccolte nel verde.
Correre. Correre la mattina presto. Correre il sabato mattina quando la città sonnecchia e la vita riprende a rilento. C’è meno traffico, ci sono i parchi invitanti e zone inesplorate raccolte nel verde.
Correre
fa bene. Correre a ritmo moderato, certo, i chili bisogna smaltirli ma senza
rischiare la salute.
Se
c’era una pagina importante, definita, nella vita di Celeste, era la regola di
correre il sabato mattina. Anche col freddo, con la nebbia, o col caldo
dell’estate, che di mattino si sentiva meno.
Era l’elisir del suo benessere. Questo credeva.
Correre
con la musica nelle orecchie, già quattro chili persi, pensieri appaganti sulla
sua immagine, il vestito attillato da indossare senza fatica, piccola soddisfazione,
piccola grande soddisfazione. L’ossessione del peso l’aveva accompagnata un po’
da sempre, le calorie, i tanti tipi di dieta, i risultati si vedevano ma poi
sparivano, i chili ripresi, il senso di frustrazione, il gelato da valutare se
mangiarlo o no, il pranzo con uno yogurt e un po’ di frutta, la sera solo un
cappuccino, i chili che se ne andavano a fatica, era così il suo fisico, non
volevano saperne di abbandonare il suo corpo. Che fosse in sovrappeso non lo
vedeva nessuno in realtà, ma lei si sentiva pesante, troppo pesante e robusta e
non doveva lasciarsi andare, non doveva lasciarsi andare, perché era un attimo
prenderne tanti di chili e allora era un problema.
Nessuno
le aveva mai detto veramente che necessitava di una dieta, né i ragazzi che
aveva conosciuto, né le amiche, anzi, una, Antonia, aveva una madre siciliana
che preparava certi manicaretti e la figlia si abbuffava, con una sottile
gioia, un piacere che si espandeva nell’aria. E non si preoccupava se il suo
volto era un po’ più rotondo, le braccia ben tornite.
Corri,
corri, corri Celeste, non pensare a niente. Anche oggi stai procedendo bene.
Arriviamo fino alla fine del parco, e rifacciamo il giro, due, tre, quattro
volte, fino a quando ce la fai. Vedrai come migliora tutto, vedrai come il
corpo apparirà tonico, dopo una bella doccia, e alla fine un succo di frutta lo
puoi bere, devi reintegrare i liquidi perduti sudando. Vai Celeste, corri, vai,
non pensare a niente.
Il
fiato affannato, la voglia improvvisa di fermarsi, non ce la faccio più, devo
sedermi un attimo sulla panchina, mi batte il cuore, devo riprendere fiato.
Ecco Celeste che si ferma, ecco il cuore che batte, batte forte, come se avesse
un ticchettio più rumoroso, sospetto. Respira, respira forte.
“Si
sente bene?”
Una
signora con un cagnolino le si era seduta a fianco. Doveva essere pallida,
molto pallida Celeste se la signora le fece quella domanda. Forse aveva una
sessantina d’anni, un volto molto curato, una bella pelle nonostante si
intravedessero i segni dell’età, i capelli tinti di biondo con la ricrescita
bianca che necessitavano di un colore uniforme.
Il
cuore di Celeste stava continuando con il suo moto ballerino, lo sentiva ancora
nel petto la ragazza, era giovane, aveva solo trentadue anni, non poteva certo
venirle un infarto solo perché faceva footing, andavano bene tutte le analisi,
era in forma, si era sempre tenuta in forma.
L’anziana
accanto le chiese se voleva un po’ d’acqua. Celeste scosse la testa, faceva
fatica anche a parlare, e poi aveva la sua borraccia dietro. Allora l’anziana
le chiese se aveva bisogno di mangiare qualcosa, se stava avendo un calo di
zuccheri, e dalla borsa estrasse un sacchetto di carta con una brioche, con
granelli di zucchero e la marmellata dentro.
Celeste
scosse la testa, no, non ne aveva bisogno, era a dieta, una brioche significava
vanificare la corsa fatta finora. Ma un’altra parte della sua mente la pensava
diversamente, aveva fame, aveva voglia di dolci, di abbuffarsi di dolci, e di
mandare al diavolo il conteggio delle calorie, la privazione di un piacere,
sottile piacere raccolto in una fetta di pane, burro e marmellata, o in una bella fetta di torta piena di panna.
Quella parte della mente diceva che il sabato mattina doveva dedicarselo ad
altre cose, anche una passeggiata a passo veloce, o un giro al mercato quando
le bancarelle iniziavano la loro disposizione e la gente era poca, e si gustava
tutto meglio quando la gente era poca. Un sabato mattina senza ansia, senza
tensione. Perché era ora di essere in pace con il proprio corpo.
Il
cuore ballava ancora un po’, e la brioche della signora era invitante. Ne prese
solo un pezzo, con incertezza. La donna la guardava compiaciuta, è buona,
disse, è del bar qui a fianco, mi diverto la mattina a prenderne una e
mangiarla lì, e poi un’altra me la faccio incartare e la mangio nel pomeriggio,
con una tazza di tè.
Qualcuno
nella sua mente voleva anche l’altra parte della brioche. La donna, quasi a
saperlo, gliela offrì, e Celeste la mangiò con fatica ma poi con soddisfazione.
Non era più abituata ai dolci.
“Venga,
andiamo a far colazione, lei è ancora molto pallida” la invitò la donna.
E
così Celeste, con il sudore freddo di certi malori, si avviò dietro di lei, il
suo cagnolino era un volpino che aveva assistito in silenzio a tutta la scena.
Il
bar in cui le due donne entrarono era poco affollato. Odori di caffè, rumore di
tazze, delizie di dolciumi esposti.
“Prenda
un’altra brioche o un dolcetto, è ancora pallida, sembra proprio un crollo
degli zuccheri, prenda qualcosa, gliela offro io.”
Un
cannolo, un cannolo con la crema. Da anni non si avvicinava a un cannolo con la
crema, quella bella crema gialla che si scioglieva in bocca, e la pasta sfoglia
che sembrava uno scrigno delle meraviglie. Erano piaceri lontani, di cui non ricordava
quasi nulla. Erano tentazioni, sì, tentazioni da cui stare lontani.
“Cosa
vuole che le faccia un bel cannolo” disse la donna, vedendola guardare il banco
dei pasticcini e la parte dei cannoli in particolare, come se intuisse i suoi
pensieri e il dilemma in cui era
combattuta.
Alla
fine Celeste indicò il cannolo, facendo cenno di sì con la testa. La crisi di
zuccheri la faceva respirare ancora a fatica, aveva bisogno di dolci, di un
caffè forse…
Le
due donne si sedettero a un tavolo, l’anziana si fece portare un tè, e offrì a
Celeste anche un cappuccino. Latte non ne prendeva più da tempo, il latte la
gonfiava…
Il
cannolo entrò nella sua bocca, nel suo palato, espandendo sensazioni di
dolcezza dimenticata.
“Sei
grassa, non vedi che ti abbuffi e hai un viso rotondo come una palla?”
Sei
grassa. Sua madre glielo aveva detto tanti anni prima, da adolescente. Glielo
aveva detto negli anni, e dato che nel suo caso non si poteva parlare di peso
eccessivo, la madre era passata a insinuazioni, se prendi peso poi gli uomini
non ti guardano, se ci si lascia andare ai dolci poi vedi come ti ritrovi, non
devi mai perdere la linea, mai, mai. Mai, mai. Era rimasta magra come aveva
voluto la madre, anche correndo. Correndo e non mangiando dolci, e facendo
diete, era sempre a dieta, sempre a dieta.
Peccato
che non aveva avuto fortuna fino ad allora con gli uomini, storie finite male,
qualcuno insofferente delle sue insicurezze e delle sue privazioni nel
mangiare, uno gliel’aveva detto chiaramente che non voleva sentirsi in colpa
per mangiare una fetta di torta, come lo era lei.
Solitudine
e mamma. Corri, corri Celeste, altrimenti gli uomini non ti guarderanno più.
Una frase, tante frasi e tanti anni di un input che si era conficcato nella
mente. E tanta insicurezza. Perché la madre parlava, parlava e lei era ancora
così figlia, a trent’anni, così suddita… poche le idee sue… e se erano diverse
da quelle della madre poi le cambiava, si sentiva meglio così, a non
contraddirla e a sentire il suo affetto, a non andare in urto.
Entrò
poco dopo una donna, era la figlia della signora.
“Ciao
mamma, vedo che hai già fatto colazione…”
Era
una ragazza con qualche chilo di troppo, avrebbe pensato Celeste fino a poco
prima, ma le apparve solo una ragazza solare che si sedette al loro tavolo, che
si sincerò delle sue condizioni, che la invitò a prendere qualche altra cosa da
mangiare, la crisi di zuccheri non era mai da sottovalutare. Il cuore di
Celeste, più soddisfatto, aveva ripreso il suo battito normale.
Parlarono
un po’ le tre donne, la figlia della signora parlò di buffi tentativi di diete
e di footing, e liquidò tutto con una bella risata. La madre la guardò con
ironia e con un bel sorriso.
“Noi
amiamo mangiare, in famiglia” convenne la madre.
E
Celeste per un attimo, vedendo quell’intesa, quella rilassatezza, quel senso di
calore che emanavano, invidiò la figlia, invidiò quella famiglia e quel
qualcosa che lei non aveva mai avuto.
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