Vivere nel presente, senza lasciarsi consumare da esso: l’immortalità possibile per l’uomo
di
Bianca Mannu
Milan
Kundera non è l’unico fra i grandi scrittori contemporanei ad argomentare sul
perché e sul come racconta ciò che racconta, mentre sta raccontando. Però egli
lo fa con incantevole leggerezza di tocco. La stessa parola «immortalità», per
la verità, non troppo sovente ripetuta, esce dall’apparente ingombro statuario,
entro cui la percepiamo d’emblée, per divenire alito di comune umanità.
La
tesi che attraversa l’opera, come una corrente leggera e sotto traccia, è che
gli umani perseguono “l’immortalità", quale tentativo e modo di sottrarre
alla morte qualcosa di sé. Propensione nota, studiata e metaforizzata fin
dall’antichità. Ma il Nostro fa in modo che il desiderio di essa scaturisca dal
semplice darsi da fare a vivere giorno per giorno, senza dissiparsi
completamente nel presente. Infatti i personaggi – accompagnati dallo sguardo
benevolo dell’Autore nel loro quotidiano - dedicano una porzione di energia per
salvare di sé alcunché di immortale e si applicano a pregustarne gli effetti
nel loro presente.
Noi
persone comuni, abituate a ragionare in termini di tempo della vita, non
pensiamo davvero a un’immortalità immortale, se mi si passa il bisticcio.
Cerchiamo di dilatare il nostro presente nell’altrui tempo futuro. Il desiderio
di estensione non è uguale per tutti. Sono i ruoli sociali, il grado di cultura
e la temperie civile in cui si è inseriti a ritagliare l’orizzonte di
immortalità a cui ciascuno può aspirare, perché traspare presto che la
disponibilità di tempo risulta preliminare all’insorgere del suo desiderio.
Questo
desiderio scaturisce – secondo la scrittura di Kundera – più prepotentemente
nel momento in cui la vita sembra tradirti o cacciarti in un cul de sac. Ma perché quell’aspirazione
prenda forza, occorre che questa stessa vita ti conceda anche opportunità e
tempo per riflettere-arzigogolare e ti abbia già fornito anche gli strumenti
psicologici e culturali per parlare a te stessa/o, tirarti dentro gli altri –
vivi e morti - e discuterci, tirare le fila del tuo esistere.
Non
vi è spazio, nel racconto di Kundera, per la concezione escatologica
dell’immortalità. Essa è chiamata in causa come semplice funzione dell’immaginario:
tu sogni di restare in qualche modo viva/o, da morta/o, tra i vivi. Sogni ed
agisci, ora, in un modo che ti fa ritenere che i vivi non possano, non
vogliano, non sappiano prescindere dal percepirti presente come un’istanza
interiore forte; istanza affettiva oppure etica oppure intellettuale o tutte queste
cose insieme. Naturalmente sai perfettamente che nulla di ciò che costruisci
con quel fine, potrà essere oggetto di constatazione. Nondimeno persegui lo
scopo corrispondendo a un godimento immaginario e attivando quel godimento nel
tuo presente.
Questo
è, grosso modo, l’assunto concettuale dell’opera. Ma non è esposto in forma
trattatistica, bensì, inserito con agilità come un sottotesto che trapunta e
accompagna piacevolmente il testo narrativo. Quest’ultimo sbalza a tondo e
dinamizza i personaggi traendoli in vortici, non solo e non tanto per azioni e
reazioni, ma per cambi di prospettiva, di modo che situazioni, apparentemente
ovvie, divengono momenti nodali del vivere, tra concomitanze, collisioni o
rievocazioni mentali.
Per
quel che mi è dato capire, Kundera non persegue la linearità logica e
cronologica del romanzo classico e neppure la sinusoide del romanzo
novecentesco condotto come flusso di coscienza; o meglio, usa anche questa
tecnica a servizio dei personaggi e per sequenze definite.
I
personaggi prendono vita da un gesto che non rappresenta l’essenza dell’io
soggettivo, né una sua creazione, bensì un circuito, un modello preesistente
attorno al quale si struttura quell’io. Un gesto è come un lemma linguistico,
precede il soggetto e permette al soggetto di strutturarsi agganciando gesti e
lemmi analoghi o dissimili in partite che chiamiamo relazioni fra umani. Le
persone sono incarnazioni di gesti e tratti, comuni a una pluralità di
soggetti. «… il gesto è più
individuale dell’individuo … molta la gente pochi i gesti … Siamo … i loro portatori», assicura Kundera.
Insomma
i soggetti sono in qualche modo seriali: si passano i gesti come si passano
parole, motti, atteggiamenti. Le specificità personali, i caratteri,
scaturiscono nella differenza delle aspettative reciproche, nella torsione di
gesti identici diversamente assemblati nel gioco interattivo, nella dialettica
io-me-altro-altri, ma anche dalle inaspettate risonanze che la ripetizione
reale o mentale di un certo gesto produce in noi – che appariamo o riteniamo
essere la fonte - allorché lo vediamo in altri come in uno specchio, magari
deformante.
Dati
questi presupposti, lo scrittore si sente pienamente motivato e giustificato
nel saltare da una contemporaneità storica a un’altra, nel raccontare e trovare
elementi di analogia tra situazioni e contesti assai differenti E perciò
agilmente può sospendere temporaneamente e alternativamente l’intreccio tra
personaggi costruiti come viventi nella Parigi attuale e spostare agilmente la
propria osservazione su storie documentate e passate in giudicato, come quella
che, per esempio, segnò il rapporto tra Goethe e Bettina Brentano.
Ampi
e variegati sono gli spazi concettuali che l'Autore attiva mediante narrazioni
che egli sviluppa come se parlasse mentre osserva i suoi personaggi col
puntiglio dell’entomologo.
Questa
e altre singolarità contraddistinguono il piglio narrativo di Kundera: egli
apre un cantiere, dispone en plain air
i suoi attrezzi: sensibilità umana, orecchio ai suoni, curiosità,
osservazione, esperienza, scienza e immaginazione. Preleva dal vero dei modelli
dei tratti non psicologici, nel senso di cui s'è detto. Su di essi costruisce
pezzo a pezzo dei personaggi e li fa vivere ciascuno per sé e nella coscienza
dell’altro; non dissimula affatto i suoi procedimenti, anzi li rivela strada
facendo e compie ampie digressioni circa l’uso delle “impalcature” e dello
strumentario, con perizia e ironia, e li lascia poi a pulsare e dire il loro
ruolo nell’opera.
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