Con la crisi della dimensione collettiva, è incerta anche la percezione dell’io. In letteratura diventa impossibile raffigurare l’insieme delle relazioni umane
di Davide Morelli
Oggi è impossibile la creazione di opere totali? Dovremmo partire da un
discorso più generale per affrontare questo argomento. Il noi è andato quasi
perduto. Chiediamo aiuto alla filosofia. Sostanzialmente esistono due scuole di
pensiero.
La tesi di Marx: il plusvalore, i mezzi di produzione, l'alienazione,
la proprietà privata, lo sfruttamento del capitalista sul lavoratore hanno
generato enormi sperequazioni socio-economiche e disgregato la società civile.
La tesi di Heidegger, Spengler, Junger, Severino: il dispiegarsi del nichilismo
occidentale ha decretato il dominio incontrastato della scienza e della
tecnologia, plasmando un uomo nuovo dedito soltanto a coltivare il proprio orto
e al calcolo del profitto.
Ma ricorriamo anche alla sociologia. Già con l'inizio dello sviluppo
industriale si sono deteriorati quelli che i sociologi definiscono gruppi
primari, cioè quelli informali, faccia a faccia. A questo proposito basta
citare la tematica dello sradicamento di S. Weil, il concetto di anomia in
Durkheim. Il deteriorarsi di queste reti amicali, di questo intreccio di
micromondi (ed il conseguente deteriorarsi delle regole di appropriatezza, condivise
da questo particolare tipo di gruppi) hanno determinato una mancanza di
identità per l'individuo, una perdita di sostegno emotivo ed affettivo per il
soggetto.
Rapidamente si è andato smarrendo il senso di un'unità collettiva, che
con il suo manto protettivo rassicurava ogni persona. L'insoddisfazione ed una
sensazione maggiore di isolamento di ognuno hanno creato ansia ed angoscia
esistenziale. Fino agli anni'70 si poteva parlare di "noi". Oggi non
è più tempo di rivivere le avventure di opere generazionali come “Sulla strada”
di Kerouac e “Lo zen e l’arte della motocicletta” di Pirsig.
E’ finito da decenni il fenomeno dell’autostop. Non potrebbe essere
altrimenti: nessuno fa salire in macchina nessuno per una diffidenza
commisurata al grado di violenza e di follia di questa società. Eppure Kerouac
mettendosi a bordo della sua Pontiac era stato in grado di vedere l’America da
una nuova ottica e allo stesso tempo di incontrare le persone più disparate.
Pirsig ci aveva insegnato che la motocicletta poteva aiutare ad avere
intuizioni fulminee sul pensiero occidentale, dopo riflessioni estenuanti che
vagavano da Platone agli intellettuali del’900. E' finita la controcultura.
Quei ragazzi descritti da Antonioni in “Zabrieskie point” non esistono più in
un periodo in cui le università sono solo esamifici. Privato e pubblico si sono
dissociati da tempo. La politica poi non interessa più nessuno. Nessuno agisce
collettivamente. Anche i soggetti plurali di “Altri libertini” di Tondelli non
esistono più: si sono suicidati o si sono pseudo-integrati.
L’immaginazione che non è mai stata al potere si è smarrita chissà
dove. Il pensiero liberale è diventato liberismo selvaggio e l’egualitarismo
invece puro assistenzialismo. I cosiddetti intellettuali del dissenso si sono
imborghesiti e nei loro laboratori non destrutturano più parole, ma per
conservare i privilegi si adeguano agli imperativi del pensiero debole o al
citazionismo ludico del postmoderno.
In questa fase di stagnazione solo l’incompreso e il militante vecchio
stampo dimostrano un certo risentimento civile, invocano la palingenesi,
sembrano per qualche attimo interpretare le istanze della gioventù
sessantottina. Ma sono invettive o solo parodie? Un'alleanza più o meno tacita
tra potere politico e grande industria ha deciso che separare il più possibile
le persone era proficuo, forse addirittura l'unico modo possibile per
continuare i cicli produttivi: dare ad ognuno un telecomando e la possibilità
di stare seduto inebetito davanti alla televisione per sorbirsi slogan
pubblicitari e vivere vite fittizie (immedesimandosi in personaggi di film) era
forse l'unico modo per far divenire ognuno un ottimo consumatore e un cittadino
che non aveva più modo di incontrarsi con altri. Isolamento era sinonimo di
pace sociale e di rimozione progressiva delle problematiche politiche, sociali,
economiche, che angustiavano le masse. Ecco di conseguenza che il noi è andato
quasi perduto per interesse e per eliminare ogni potenziale disturbo al Potere.
In Italia questo processo di sfaldamento del noi è stato molto più
indiretto e più soft, vivendo in una democrazia. Ma essendo l'interdipendenza
necessaria per tutti, essendo quasi scomparso il noi, si è andato anche
indebolendo l'io; molti fattori ed una concatenazione di cause hanno minacciato
la stabilità dell'io. Il risultato è che mai come nel corso di questa modernità
l'io si è espanso e contratto a dismisura. Pessoa moltiplica il suo io grazie
all'utilizzo degli eteronimi, oggi invece la critica letteraria ha ravvisato
negli ultimi due decenni della poesia italiana un fenomeno di "riduzione
dell'io". Non si sa bene dove inizino e dove finiscano i confini dell’io.
Non è un caso che i cosiddetti disturbi di personalità, venti anni
addietro sconosciuti e rarissimamente diagnosticati, si diffondono in misura
esponenziale in quest'epoca. C'è un interscambio continuo dalla culla alla
tomba tra individuo ed ambiente, tra psicologia della personalità e psicologia
sociale. Chiamatelo io, coscienza, sé, anima, mente, cervello. Chiamatelo come
volete. Però il risultato non cambia: la struttura intrapsichica della mente
non esiste, ma solo quella interpsichica.
E' la madre, il padre e la famiglia, che ci insegnano a parlare. Sono
gli altri, che ci formano. La genesi del linguaggio e della coscienza è
sociale. E l'altro è sempre presente nel corso di tutta la vita anche nei
pensieri più intimi. Essendo determinante la matrice psicosociale, una civiltà
post-industriale alla deriva non aiuta la genesi, la formazione e la stabilità
dell’io.
Qualsiasi forma di letteratura scaturisce dal rapporto tra io e mondo.
Ricapitolando l'io è in crisi e il mondo si è fatto così proteiforme e
cangiante ad ogni minuto che passa, che è un'impresa titanica rappresentarlo
totalmente. Ne consegue che anche la possibilità di creare opere, che
"aprono mondi", è fortemente minacciata. Difatti nel novecento non si
sono più realizzate opere come quella di Dante in poesia o come quella di
Balzac in narrativa. In poesia nel novecento abbiamo visto un grande poeta come
Tagore con i suoi canti cercare di carpire l'assoluto, l'eterno, l'infinito. Ma
i canti di Tagore non possono essere considerati un'opera totale e gli autori
occidentali del'900 non sono mai riusciti a mostrare una capacità di
raccoglimento, di pace interiore e di meditazione simile a quella di Tagore.
Locale e globale sono le due polarità su cui oscilla la mente del
creativo attualmente. Con un gioco di parole potremmo affermare che gli autori
odierni sono davvero indecisi se localizzare il globale o globalizzare il
locale. Paragonando la poesia ad un'antica città romana direi che nei secoli
precedenti ad un autore era possibile fabbricare un'opera monumentale, un
tempio, un anfiteatro o un arco di trionfo. Attualmente è possibile al massimo
disegnare una minuscola scena dei bassorilievi della colonna Traiana o lasciare
i propri geroglifici in una epigrafe.
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