L’influenza della politica sulla giustizia si accompagna alla degenerazione clientelare, come dimostrato dal «caso Palamara». Le riforme necessarie per contrastare la crisi di credibilità
(Angelo Perrone) Alla fine, come spesso accade dopo vicende
clamorose, arriva perentorio il monito del presidente della Repubblica. «I
nostri cittadini devono poter contare sulla certezza del diritto e sulla
prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti». Sono le
parole pronunciate da Sergio Mattarella il 18 giugno scorso, a margine del
«caso Palamara» che ha scosso come poco altro l’edificio della giustizia in
Italia.
E’ l’ennesimo richiamo, di fronte all’esigenza di
rinnovamento, provocato dal recente scandalo tra le toghe. L’esortazione a fare
presto, a cambiare direzione di marcia. L’invito a mettere mano a riforme
urgenti per invertire una direzione di marcia sempre più dannosa per il sistema.
Ma quali interventi sono necessari? In quale direzione muoversi?
I fatti recenti non hanno rivelato nulla che già non si
sapesse sull’intreccio perverso tra giustizia, partiti, correnti. Per questo
l’esortazione del presidente, vibrante e accorata, ha un sapore amaro:
l’ennesima tirata di orecchio a chi dovrebbe ascoltare, a coloro che dovrebbero
mettere mano a riforme radicali. La constatazione che lacune, errori,
deviazioni stiano determinando guasti irreparabili. Falle difficili da colmare,
soprattutto senza una visione d’insieme, e in mancanza del coraggio di cambiare
passo.
Il «caso Palamara» ha rappresentato un esempio eclatante di degenerazione
clientelare. Non è un fatto nuovo, sentiamo ripetere gli stessi concetti da
tempo, ci sembra sempre di aver raggiunto un limite difficile superare. Non è
così. Ogni volta si aggiunge qualcosa. L’asticella è spinta più in alto. È
sempre possibile andare oltre, nell’abisso. Nonostante le proteste, i segnali d’allarme,
le buone prassi di tanti. Le intenzioni oneste della stragrande maggioranza di
magistrati e la loro abnegazione.
Perché i magistrati operano diversamente, non sono affatto inclini
agli intrallazzi. Ce lo diciamo noi per tranquillizzarci, e va detto a
Palamara, a dispetto di tutte le insinuazioni, i messaggi cifrati che diffonde da
qualche tempo. Imputato di corruzione, sospeso da funzioni e stipendio, ora
anche espulso dall’associazione magistrati, insiste a dire di «non aver fatto
tutto da solo», e lascia intendere di sapere cose compromettenti, d’essere
pronto a chiamare in causa tanti colleghi. L’ultima difesa disperata per non
affogare da solo? Quali rivelazioni?
Nonostante il già visto, qualcosa aumenta lo sdegno, e
dunque rende impellente un deciso intervento per salvaguardare il lavoro di
tanti e soprattutto l’integrità della magistratura in uno stato di diritto.
L’incontro del maggio 2019 in un albergo romano tra consiglieri del Csm,
politici, esponenti dell’associazionismo – documentato dal trojan messo nel telefonino di Palamara – è (al momento) l’ultima frontiera
di questo processo degenerativo, per la qualità dei personaggi, i loro ruoli,
la sede dell’incontro, gli argomenti in discussione. Una «questione morale» di
primaria grandezza. Difficile immaginare qualcosa di più compromettente.
Soggetti in carica (cinque consiglieri del CSM) ed ex (Palamara),
magistrati e politici (Luca Lotti, ma anche Cosimo Ferri, che abbina al ruolo
di magistrato in aspettativa quello ben coltivato di politico-cerniera tra
magistratura e politica), persino indagati in qualche procedimento delicato (sempre
Lotti per il caso Consip): tutti a conversare liberamente, in un salotto
romano, a tarda sera, sulle nomine di importanti procuratori della Repubblica e
persino di chi dovrà valutare la sua posizione (Lotti).
Ma è solo la concretizzazione occasionale e pur tragica di
meccanismi deviati. Poi ci sono le 60.000 pagine di registrazione dei
messaggini trovati nel telefono dello stesso Palamara a documentare i contatti
e i dialoghi tenuti per anni dal magistrato, un tempo potentissimo (è stato
presidente dell’Anm): una miniera nella quale stanno pescando la Cassazione per
i provvedimenti disciplinari, il Csm per le indagini, infine la procura di
Perugia (ora assegnata a Raffaele Cantone) per la corruzione contestata allo
stesso Palamara.
Rimanendo al tema dell’operato del CSM, organo di
autogoverno della magistratura (“togati” nominati dagli stessi magistrati e “laici”
indicati dal parlamento), attraversato dalle trame oscure di Palamara e dei
suoi amici, è noto che proprio l’appartenenza alle correnti sia il viatico
privilegiato per le nomine più importanti. Con perdita di autorevolezza per la
magistratura e per i singoli che ne beneficiano.
A questa pericolosa deriva, dovuta alla annosa questione della
degenerazione delle correnti in strumenti di pressione, si cerca di opporre
rimedio con progetti di riforma legislativa, che riguardano soprattutto i
meccanismi di elezione dei membri del CSM, posto che la stessa Costituzione
prevede che essi sia appunto frutto di una elezione. Per questo sembra superata
(ma non si sa mai) la bizzarra idea dei 5S di ricorrere al “sorteggio” per
queste elezioni, ennesima traduzione del principio di incompetenza come bussola
delle decisioni.
Eppure le correnti, di per sé espressione di pluralità di
idee e come tali ineliminabili, erano nate con lo scopo di alimentare il
dibattito interno, prima di diventare centri di protezione delle ambizioni dei
singoli. Pessimo lo scenario offerto da troppi casi in cui le nomine a ruoli
prestigiosi sono state palesemente determinate da logiche di spartizione tra
correnti.
Sarà difficile, osservando le proposte in cantiere, che
basti la tecnica legislativa a salvarci da prassi deprecabili, senza un diverso
scenario, che metta in primo piano l’esigenza del «buon governo», come regola
di giudizio per l’elezione a posti importanti o le nomine negli incarichi
direttivi. Anche le migliori norme possono essere mal utilizzate,
strumentalizzate per fini di parte, aggirate contro il merito, la qualità, la
serietà. Soprattutto succede se manca l’impegno della politica a fare un passo
indietro, a rinunciare a mettere comunque ipoteche sul futuro, secondo la
logica eterna di cambiare tutto perché nulla cambi davvero.
Eppure il recupero della moralità pubblica, dell’onestà
professionale, come criteri di tutte le scelte, non può rinunciare a interrogarsi
su questo piano. Non si può abbandonare il proposito di cercare modifiche
normative utili, anche se potrebbero non bastare affatto, come avvenuto in
passato, con il fallimento di tante proposte. Uno stallo, l’incapacità di fare
argine al malcostume. Accadrà anche stavolta? È davvero impossibile cambiare i sistemi
di selezione del personale, dal Csm agli incarichi negli uffici giudiziari? Forse
non è troppo tardi per modificare sistema elettorale e funzionamento del Csm.
Se il vizio è la scelta di tanti (troppi) secondo
l’appartenenza piuttosto che per il merito, è necessario accrescere tutti
quegli strumenti che possano valorizzare proprio la competenza dei singoli e la
trasparenza nelle scelte, depotenziando il ruolo delle correnti. La mediazione
dei gruppi organizzati, e persino della politica, trae forza da un deficit di esposizione
e di comunicazione della competenza professionale. Spesso l’aiuto delle
correnti – d’intesa con la politica - supplisce al difetto di consenso
sociale-professionale, e di autorevolezza, dei singoli aspiranti.
Non basta invocare un maggior legame tra i concorrenti (nel
caso dell’elezione del Csm) e il territorio, se manca la capacità pratica di costoro
di farsi conoscere ed apprezzare dal proprio elettorato, cioè gli altri
magistrati. Così come non serve invocare genericamente il requisito del merito
nella scelta dei capi degli uffici se non vi sono procedure di selezione, corsi
vincolanti di formazione, ed infine meccanismi palesi e controllabili di scelta.
Si tratta di potenziare la pubblicità delle sedute, la prevedibilità delle
scadenze concorsuali, l’obbligatorietà delle motivazioni. Se tutto ciò non
impedisce manovre di corridoio, almeno le ostacola e offre qualche rimedio agli
onesti.
Oggi c’è anche il monito severo del presidente della
Repubblica a ricordarlo. I magistrati devono riguadagnare sul campo la fiducia
incrinata da troppi scandali, non possono più indugiare o avere esitazioni. Non
perché ci sia qualcuno o qualcosa a chiederlo, o perché gli scandali abbiano
reso incandescente la situazione. Ora che stiamo toccando il fondo, è
imprescindibile provare a risalire la china. Serve proprio colmare le lacune
che abbiamo sempre trascurato, rendendo intollerabile la situazione.
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