di Marina Zinzani
Il perdono si può immaginare come una foglia magica che cade sul cuore di una vittima. Arriva e placa le tremende sofferenze che ha subito. Può essere un perdono non richiesto, dall’altra pace il colpevole tace, nulla chiede.
Ma quel perdono, che arriva ad un certo punto, ha un potere balsamico. Diventa altro, colui che fece del male diventa figura con cui convivere, accettare, forse più sbiadita col tempo.
E’ il potere magico di questa foglia, che si posa trasportata dal vento, dalla bufera. E’ provvidenziale per tanti. Quanti aspetti però ci sono dietro questa foglia benedetta.
E’ necessaria perché la vittima (o il parente della vittima) in quel momento non è più soggetto passivo, sopraffatto dall’atto dell’altro. Diventa soggetto attivo. La vittima decide di agire, di voltare pagina, di elargire il perdono come una forma di potere, diventando padrone dei propri sentimenti: è una forma tenera, struggente, di sopravvivenza.
Convivere con un rancore senza fine, che rende tossico il presente, significa fare vivere ogni giorno il carnefice, dargli importanza. Il perdono, il relegarlo in un angolo, con un gesto di superiorità, diventa atto di amore verso se stessi, per cercare di ricominciare a vivere.
La faccenda è più complessa. Questo modo di vedere è quello che racconta che il perdono è curativo, permette di archiviare in nome di un sentimento più forte.
Se sdoppiamo però la persona, conscio e inconscio, se consideriamo l’inconscio come un essere che non è stato abbastanza ascoltato, compreso, un essere sofferente che ha vissuto il suo torto in silenzio, possiamo pensare che quell’essere il perdono non lo accetta. Sotto nessuna forma, in nome di sentimenti superiori, elevati.
Non lo accetta perché quello che rivendica è giusto, lo sente giusto. Rivendica il rancore, la rabbia, che siano riconosciute le sue offese. Il perdono allora non diventa foglia magica che placa gli animi, che fa voltare pagina. Diventa libro che si chiude, senza leggerne le pagine, e dentro quelle pagine ci può essere una sofferenza che continua ad agire.
E’ di moda, da tanti anni, il perdono. La vittima è in torto se non perdona, subito, possibilmente davanti alla tv. Come se fosse faccenda pubblica, e senza che l’altro l’abbia chiesto. Quell’essere sofferente, anima, inconscio o cos’altro, avrebbe tante cose da dire, e deve restare in silenzio, cercando di sopravvivere. E quelli che implorano il perdono così facilmente, come una prassi, sono poco interessati a cosa c’è dentro il mondo della vittima. Una celebrazione della superficialità.
L’ascolto dell’essere offeso può permettere una ripartenza, e anche il suo rancore, dopo un lungo percorso, può essere legittimo, necessario. Poi un giorno scopre che i fantasmi se ne sono andati. Ma li ha combattuti, con ogni mezzo.
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